Alle otto di mattina dell'11 luglio al via le operazioni per accertarsi che la ragazza scomparsa nel 1983 non sia sepolta nel cimitero teutonico. Pietro Orlandi: "Aprendo queste due tombe il Vaticano ammette la possibilità, tutta da verificare che ci possano essere responsabilità interne"
Nuovo capitolo del caso Orlandi. In Vaticano è tutto pronto per aprire le due tombe, all’interno del Cimitero Teutonico, dove i suoi famigliari sospettano che ci siano i resti della ragazza scomparsa nel 1983. L’operazione, fortemente voluta dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e disposta dal promotore di giustizia vaticano Gian Piero Milano, sarà effettuata nella prima mattinata dell’11 luglio 2019. Saranno aperte la cosiddetta “Tomba dell’Angelo” in cui è sepolta la principessa Sophie von Hohenlohe, morta nel 1836, e quella attigua in cui è sepolta la principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo, morta nel 1840. Il supporto all’autorità giudiziaria sarà garantito da personale qualificato del Centro operativo di sicurezza della Gendarmeria Vaticana. A occuparsi delle analisi dei reperti e del prelevamento dei campioni per il successivo esame del DNA, in presenza del perito e del legale della famiglia Orlandi, sarà Giovanni Arcudi, uno dei maggiori esperti di antropologia forense, professore di medicina legale all’Università Tor Vergata di Roma.
“Aprendo queste due tombe il Vaticano ammette la possibilità, tutta da verificare che ci possano essere responsabilità interne – ha detto Pietro, il fratello di Emanuela Orlandi – Un cambio di posizione, si ammette una possibilità finora sempre negata. Finalmente dopo 36 anni c’è una collaborazione concreta e giusta che io apprezzo tantissimo”. “Siamo impegnati – ha spiegato Arcudi a Vatican News – nell’apertura di due tombe nelle quali presumiamo di trovare resti già allo stato scheletrico. Se sarà così, come possiamo presumere, io andrò ad applicare i protocolli internazionali che si utilizzano per l’identificazione di resti scheletrici per la loro classificazione e per la loro datazione e per tutte le altre diagnosi che si possono fare in antropologia forense, per stabilire età, sesso, statura e quant’altro. In questa fase stiamo parlando di un’indagine di antropologia forense, che appunto ha la finalità di raggiungere delle diagnosi attraverso l’esame morfologico delle ossa. Prendiamo osso per osso e vediamo quali sono le sue caratteristiche e in base a questo definiamo tutte le diagnosi di cui ho appena parlato. Abbiamo predisposto, come si fa per questi casi, un ordine protocollare, che potrà subire modifiche in base a ciò che andremo a riscontrare dopo l’apertura delle tombe, nel caso ci trovassimo di fronte a repertazioni diverse da quelle che ci aspettiamo”.
Arcudi ha, inoltre, precisato, che “da questa prima analisi delle ossa possiamo proporre sicuramente una datazione, certamente approssimativa, ma per i periodi che a noi servono – di 50, 100, 200 anni – la possiamo fare. Possiamo distinguere se è un osso di 10 anni o che è stato lì 50 anni o 150 anni. Possiamo fare già la diagnosi di sesso, se le strutture ossee risulteranno tutte ben conservate. Potremmo anche arrivare, dopo questo primo esame, a escludere l’ipotesi che i resti scheletrici appartengano a persone diverse rispetto a quelle due che sono state sepolte lì. È ovvio che se, per esempio, si trovassero ossa appartenenti a individui diversi nella stessa tomba, i tempi dell’operazione si allungherebbero. Potrebbe essere di aiuto l’identificazione odontostomatologica, lo stato dei denti, dai quali si può risalire all’età come pure se, faccio un’ipotesi, una lavorazione del dentista risale all’Ottocento o invece è più recente”.
E per escludere che nelle due tombe ci siano anche i resti della Orlandi come sospetta la famiglia? “A prescindere dall’esame morfologico delle ossa, – ha spiegato Arcudi – l’esame del DNA verrà fatto in ogni caso per raggiungere delle certezze e per escludere in maniera definitiva e categorica che nelle due tombe ci sia qualche reperto attribuibile alla povera Emanuela. L’esame del DNA non è di mia competenza, io mi occuperò di prelevare i campioni. I tempi di estrazione del DNA variano notevolmente – in qualsiasi laboratorio del mondo avvengano – a seconda dello stato di conservazione dei resti scheletrici. Possono variare, possono essere necessari 20 giorni, 30 giorni, e possono essere anche 60 perché talvolta bisogna ripetere l’esame. Tenendo presente che per l’identificazione noi abbiamo bisogno dell’estrazione del DNA ‘nucleare’, che subisce delle degenerazioni, delle variazioni importanti a seguito degli eventi atmosferici. Il DNA mitocondriale possiamo estrarlo più facilmente, ma quello non ci consente di fare analisi di comparazione o di fare il profilo genetico”.
Twitter: @FrancescoGrana