L'11 luglio 1979 l'avvocato liquidatore della Banca privata italiana veniva assassinato sotto casa a Milano da un killer reclutato da Michele Sindona. Ma dovremmo ricordare anche altre date. Quelle che ci raccontano come sia stato lasciato solo, anzi ostacolato dalla politica e dai "salotti buoni". Mentre cercava di recuperare denaro per la collettività. Il ruolo di Andreotti e della P2
“Il signor Ambrosoli?”. “Sì”. “Mi scusi signor Ambrosoli”. Seguono diversi colpi di pistola, una 357 Magnum. Così, la notte dell’11 luglio 1979, l’avvocato Giorgio Ambrosoli viene assassinato sotto casa a Milano, in via Morozzo della Rocca, vicino al carcere di San Vittore. Ha passato l’ultima serata a casa di amici a vedere un incontro di pugilato in tv. È il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, travolta cinque anni prima da un crac che oggi varrebbe un paio di miliardi di euro. La sua morte, a 45 anni, non appartiene ai “misteri italiani”. Sappiamo il nome del killer: il criminale italo-americano William Aricò. Sappiamo il nome del mandante: lo stesso Sindona, finanziere d’avventura piduista legato a Cosa nostra e ben introdotto nei salotti “buoni” della borghesia milanese e della politica romana. Sappiamo il movente: Ambrosoli si opponeva ai piani di salvataggio della banca, e della fedina penale di Sindona, a spese dei contribuenti. Giulio Andreotti e la Loggia P2 furono due soggetti che si attivarono per far passare questi piani.
I funerali disertati
Dato che su questo omicidio sappiamo quasi tutto, soffermiamoci su altre ricorrenze che faremmo bene a ricordare. Per esempio il 14 luglio, il giorno dei funerali. “Qualcuno si guarda intorno: nessun uomo politico, né lombardo né romano”, leggiamo dalla cronaca di Repubblica di allora. “Nessun sindacalista. Il prefetto non c’è. Insomma, niente personalità. E perché? In fondo l’avvocato Ambrosoli è stato assassinato mentre faceva il suo lavoro per la comunità: stava recuperando denaro alla collettività, era a tutti gli effetti un pubblico ufficiale”.
Per esempio il 16 luglio, quando a Palazzo Marino si riunisce il Consiglio comunale e, come da prassi, il sindaco socialista Carlo Tognoli ricorda le personalità illustri decedute: Carlo Gervasini, direttore del Pubblico macello, padre Enrico Zucca, fondatore del centro culturale Angelicum, e Giordano Belloni, presidente del comitato di gestione dell’Eca, l’ente comunale di assistenza. Su Ambrosoli nemmeno mezza parola. Qualcuno protesta, il dibattito s’infiamma. Il Pci prende le parti del monarchico Ambrosoli e va all’attacco su Sindona, la Dc parla di “strumentalizzazione plateale e volgare”.
L’estradizione ritardata
Ricordiamoci anche del 25 marzo 1980. È il giorno in cui le autorità degli Stati Uniti riconoscono finalmente la richiesta di estradizione avanzata dall’Italia ben cinque anni prima nei confronti del bancarottiere latitante a New York. Qualcosa si era inceppato, ma al di qua dell’Atlantico. Due esponenti della “comunità italoamericana”, Paul Rao e Philip Guarino, si incontrano il 23 agosto 1976 con il presidente del Consiglio Andreotti. “Si trattava di impedire, se possibile, o quanto meno di ritardare, l’estradizione di Michele Sindona”, racconterà in seguito ai giudici Rodolfo Guzzi, avvocato del finanziere. Dopo il “completo interessamento” assicurato dal capo del governo, una visitina di Rao e Guarino a Licio Gelli, invitato a “tener desto l’interesse” di Andreotti e altri politici.
Le minacce trascurate
Sulla nostra agenda teniamo uno spazietto anche per il 12 gennaio 1979, sei mesi prima dell’assassinio, quando Ambrosoli riceve questa telefonata: “Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto bastardo!”. A parlare, appurerà l’inchiesta, è Giacomo Vitale, cognato del padrino di Cosa nostra Stefano Bontate e massone affiliato alla loggia coperta Camea di Palermo. Teniamo uno spazietto anche per il 3 ottobre 1985, quando davanti alla Corte d’appello di Milano Enrico Cuccia, sommo sacerdote del capitalismo italiano, a sua volta oggetto di pesanti intimidazioni da parte del killer Aricò, spiega perché non fece parola con nessuno, e men che meno con il diretto interessato, delle esplicite minacce di morte verso Ambrosoli che aveva sentito dalla viva voce di Sindona in un drammatico faccia a faccia: “Non avevo il modo, avrei avuto una denunzia per calunnia, e sarebbe stata la sola cosa che avrei potuto avere. Le minacce, Ambrosoli le riceveva direttamente dai picciotti che gli telefonavano”.
Andreotti tifa Sindona
Un ricordo particolare dovrebbe andare poi al 23 ottobre 1999, data della sentenza di primo grado del processo per mafia contro Giulio Andreotti. Nella quale si legge: “Rimane, tuttavia, il fatto che l’imputato anche nei periodi in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, si adoperò, con le condotte ampiamente indicate, in favore del Sindona, nei cui confronti l’autorità giudiziaria italiana aveva emesso sin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per il reato di bancarotta fraudolenta”. Senza dimenticare il 9 settembre 2010, quando i quotidiani anticipano un’intervista di Andreotti a La storia siamo noi, il programma di Giovanni Minoli, in onda quella sera su Raidue. Al giornalista che gli chiede perché Ambrosoli sia stato ucciso, il senatore a vita risponde: “Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando“. Un “fraintendimento”, si scuserà poi.
Qualunque cosa succeda….
Sì, se l’andava cercando l’avvocato Ambrosoli. Infatti conosceva perfettamente i rischi a cui andava incontro. Nel suo ufficio di liquidatore si materializzava “gente di ogni risma e colore”, scriveva in una lettera alla moglie Annalori il 25 febbraio 1975 (annotiamoci anche questa). Una lettera mai consegnata, è lei a scorgerla per caso tra le carte sparpagliate su un tavolo di casa. Il testo è raggelante e profetico: “È indubbio che, in ogni caso, pagherò molto a caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata una occasione unica di fare qualcosa per il Paese”. La conclusione darà il titolo a un bel libro scritto dal figlio Umberto molti anni dopo: “Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo sempre creduto”.
Almeno in una di queste date ricordiamoci che l’eroe borghese era solo. In mezzo a troppi borghesi pavidi, quando non collusi e criminali.