Da un po’ di tempo, gli organi di informazione riportano la notizia che il mare (in particolare il Mediterraneo) è sempre più inquinato dalla plastica. In realtà è una non-notizia, nel senso che questo stato di degrado è noto da anni se non da decenni, come è noto il l’inquietante fenomeno dell’isola di plastica del Pacifico (Pacific Plastic Vortex). Dell’argomento mi occupai già in passato, riportando anche i dati di uno studio secondo il quale oramai il peso della plastica nei mari della Terra potrebbe superare quello dei pesci.
Certo che fanno colpo le fotografie di animali marini che muoiono proprio a causa della plastica, così come lo fece la foto del cavalluccio marino con il cotton fioc. Se torno sull’argomento è perché alcuni nuovi stimoli mi inducono ad approfondire la questione.
Uno è l’adozione a maggio da parte del Consiglio europeo della direttiva sulla plastica monouso, denominata Single Use Plastics (Sup). La direttiva, nata soprattutto per arginare proprio il fenomeno dei rifiuti marini (marine littering), ha lo scopo di ridurre l’uso di alcune di prodotti monouso a favore di prodotti durevoli e riutilizzabili. In questa ottica, essa non vieta solo la plastica fossile, ma anche quella biodegradabile (bioplastica) e la carta con pellicole di plastica. Del resto, la stessa Ue già nel 2018 aveva evidenziato che “la maggior parte della plastica etichettata come biodegradabile generalmente si degrada in presenza di condizioni specifiche, che non sempre si presentano nell’ambiente naturale, e quindi può in ogni caso danneggiare gli ecosistemi. La biodegradazione nell’ambiente marino presenta particolari difficoltà”.
Sulla scorta della direttiva, già alcuni comuni costieri italiani hanno adottato ordinanze di divieto di utilizzo di plastica monouso, come il comune di Arzachena. Diciamo che la direttiva in pratica colpisce anche la produzione delle plastiche monouso, e questo è lodevole. Meno lo è il fatto che non si abbia avuto il coraggio di bandire anche i bicchieri di plastica: avrebbe creato un putiferio.
Ma quando parliamo di plastiche e microplastiche forse non comprendiamo abbastanza la profondità e l’estensione del problema. Ci sovviene un recente articolo della giornalista Elisabetta Corrà, che evidenzia come le microplastiche siano presenti anche in prodotti di bellezza sotto forma di microsfere di polietilene che, a seguito di risciacquo, spesso finiscono nell’acqua corrente e quindi in mare. Il problema è sottovalutato se si tiene conto che, come riporta il testo dell’articolo, “un totale di 4360 tonnellate di sfere di microplastica sono state utilizzate in Europa nel 2012, nei Paesi membri più la Norvegia e la Svizzera, stando a Comestics Europe, che si è focalizzata sull’uso delle sfere di microplastica, con le sfere di polietilene che rappresentano il 93% del totale.”
E, sempre a proposito di microplastiche, è sempre recente il risultato di uno studio condotto dall’Università degli Studi di Milano e di Milano-Bicocca sul Ghiacciaio dei Forni, nel Parco Nazionale dello Stelvio. Tra l’altro ricordo come tale ghiacciaio, che è il più grande ghiacciaio vallivo italiano, sia monitorato già per il cambiamento climatico, che ne ha ridotto drasticamente le dimensioni.
Tale studio (i rilevamenti sono stati effettuati da ricercatori con abbigliamento in cotone e zoccoli ai piedi) ha rilevato come nel ghiaccio siano presenti 75 particelle di microplastiche per ogni chilo di sedimento. Da dove deriva la plastica? In parte, sicuramente dall’abbigliamento che indossiamo (purtroppo, mi ci metto anch’io) andando in montagna, composto in larga parte di materiali sintetici, e ovviamente soggetti ad usura, in parte dal trasporto del vento.
Insomma, siamo circondati dalla plastica. Intorno a noi, ma anche su di noi o dentro di noi. Ma il problema non è ancora abbastanza sentito. Se scendo in strada, noto come nel cassonetto dell’umido, la plastica (pur biodegradabile) abbondi. Se vai al mercato, gli ambulanti ti impacchettano i prodotti in sacchetti che il cosiddetto già il decreto Ronchi nel lontano 1997 voleva eliminare. E’ un problema di coscienza ambientale, della gente, e dei politici che la gente vota. Penso che sarà dura cambiarla.