Com’è possibile salvare la compagnia di cui quattro passeggeri su cinque atterrano o decollano da Fiumicino, se la stessa deve contribuire a garantire ad Aeroporti di Roma un rapporto tra Ebidta e ricavi che si avvicina al 50%?
Dopo oltre due anni di gestione commissariale dell’Alitalia in crisi, che ha migliorato i conti ma certo non risanato la gestione, sembra ormai prossimo il completamento della cordata di nuovi azionisti, assemblata dal gruppo Fs. Ma, indipendentemente dalla possibile composizione, che cosa si apprestano a fare i futuri gestori per conseguire l’equilibrio economico-finanziario dell’azienda e la sua sostenibilità futura? Le indicazioni che sono emerse da diversi recenti articoli in tema di piano industriale non lasciano ben sperare. Siamo ancora una volta di fronte, almeno la quarta da quando Alitalia è stata privatizzata nel 2008, a ipotesi ossimoriche di ‘ridimensionamento espansivo’ o, se si preferisce, di ‘sviluppo contrattivo’. Per l’ennesima volta la flotta è prevista in riduzione, il personale è previsto in riduzione, non si è ben compreso se di millecento, millesettecento oppure duemilacinquecento persone, ma miracolosamente i livelli di traffico sono previsti in aumento, così come i ricavi. Come tutto questo possa avvenire non ci è stato ancora rivelato ma confidiamo fiduciosi nella nomina di Mago Merlino come prossimo amministratore delegato oppure in una moltiplicazione dei passeggeri e dei ricavi paragonabile a quella biblica dei pani e dei pesci.
Ormai i piani industriali di Alitalia sono divenuti la variante aeronautica della curva di Laffer, la famosa previsione dell’economista reaganiano secondo cui diminuendo le aliquote fiscali il gettito si sarebbe accresciuto. Ovviamente al diminuire delle aliquote il gettito si ridusse così come in tutti i piani aziendali di Alitalia dal 2008 in avanti ogni volta si è ridotta la flotta e il personale si sono ridotti anche i ricavi e il disavanzo è peggiorato, tanto in rapporto ai ricavi quanto in valore assoluto. Solo in un caso questo non è avvenuto, ma semplicemente perché il piano, quello di Cramer Ball-Etihad dei primi mesi del 2017, non è stato attuato per la forte opposizione dei dipendenti, culminata nella schiacciante maggioranza di no al referendum sindacale di fine aprile di quell’anno.
Sono convinto che nel frattempo né i lavoratori di Alitalia né i loro rappresentanti sindacali siano divenuti aeronauticamente lafferiani e dunque ritengo restino poco propensi a cadere nella trappola teorica del ridimensionamento espansivo. In realtà tutti questi piani, immagino anche quello attuale solo in parte svelato, dopo una prima fase contrattiva nei fattori produttivi utilizzati ne prevedevano una seconda espansiva, che tuttavia non ha mai avuto il tempo di verificarsi, preceduta di solito da una nuova crisi ancora più grave di quella per cui il piano era stato elaborato. Inoltre, se questa strategia di ridimensionare prima per riaccrescere dopo può funzionare nel settore manifatturiero, non altrettanto accade nei servizi ove lasciare spazi liberi ad agguerriti concorrenti con vantaggio di costo ha la stessa prospettiva di recuperarli che abbiamo se rimuoviamo il nostro telo da mare da un’affollata spiaggia libera ferragostana. Nel 2008 l’infausto piano Fenice di aggregazione contrattiva di Alitalia con AirOne regalò ai vettori low cost ben 14 milioni di passeggeri che prima viaggiavano coi due vettori; la nuova Alitalia Cai non riuscì successivamente a recuperarne neanche uno.
Non è chiaro se nel nuovo piano vi sia un’analisi causale della crisi di Alitalia e un’analisi di concorrenza, dato che i giornali non ne hanno parlato. Tuttavia è lecito dubitarne in quanto se vi fossero smentirebbero la validità del piano che è stato descritto dagli organi di stampa. In Italia è l’intero mercato del trasporto aereo a essere caratterizzato da condizioni specifiche che lo differenziano da tutti gli altri. In questo mercato un vettore come Alitalia non sarebbe in grado di sopravvivere neppure se fosse gestito dalla miglior compagnia aerea al mondo e dai migliori manager aeronautici.
Le ragioni sono semplici: è un mercato altamente concorrenziale in cui i vettori low cost sono nettamente al di sopra della metà di esso, nessuno appartiene alla compagnia nazionale, che è troppo piccola e troppo debole, considerato anche che i low cost le fanno direttamente concorrenza nell’hub di Fiumicino. Per effetto dell’elevata concorrenza i suoi ricavi unitari, per passeggero e per chilometro volato, sono molto inferiori alle altre grandi compagnie tradizionali europee, tanto che si può stimare che i passeggeri che volano sui cieli italiani alle nostre convenienti tariffe medie risparmino in un anno ben tre miliardi e mezzo di euro rispetto a quelle pagate dai loro omologhi che volano sui cieli tedeschi.
Non altrettanto si verifica invece dal lato dei costi. A un vettore piccolo e problematico i fornitori dei velivoli in leasing applicano prezzi più elevati e questo è inevitabile. Ciò che invece era evitabile ed è incompatibile con la sopravvivenza di Alitalia sono gli elevati extraprofitti dei maggiori gestori aeroportuali, ai quali un regolatore pubblico storicamente dormiente ha garantito una redditività che non trova equivalente in nessun’altra realtà mondiale. Com’è possibile salvare Alitalia, di cui quattro passeggeri su cinque atterrano o decollano da Fiumicino, se Alitalia deve contribuire a garantire ad Aeroporti di Roma un rapporto tra Ebidta e ricavi che si avvicina al 50%? Risolviamo il rebus ammettendo Atlantia, che controlla Aeroporti di Roma, tra gli azionisti principali della nuova Alitalia? Sarebbe un tentativo di cura omeopatica con le identiche prospettive di successo che hanno solitamente questo tipo di cure.