Diritti

Nepal, la storia delle donne che si ribellano alla segregazione quando hanno le mestruazioni: “Ogni anno una di noi muore”

88 madri, figlie, mogli, del villaggio di Ripi, a inizio maggio scorso, di fronte alle autorità locali, hanno rifiutato pubblicamente il rito. Ogni mese le donne sono costrette a stare nel periodo del ciclo in capanne simili a delle stalle: non possono toccare gli uomini, non possono lavarsi, consumare latte, yogurt, burro, carne e altri cibi nutrienti, né possono usare coperte calde, ma solo un piccolo tappeto, solitamente fatto di juta

Isolate perché considerate impure. Costrette ad allontanarsi da casa durante il periodo mestruale e a rinchiudersi in capanne che assomigliano a delle stalle. È la condizione di molte donne del Nepal occidentale, sottoposte per parecchi giorni al mese a un’antica usanza, quella della chapaudi. Una tradizione, come spiega la onlus Apeiron, un’associazione con sede sia in Nepal che in Italia che lavora per la parità di genere nel Paese asiatico, spesso fatale per molte donne. Solo oggi, nonostante la pratica sia stata dichiarata illegale due volte, nel 2005 e nel 2017, queste vittime hanno iniziato a ribellarsi. È il caso delle 88 madri, figlie, mogli, del villaggio di Ripi che a inizio maggio, di fronte alle autorità locali, hanno rifiutato pubblicamente il rito. Il processo verso la consapevolezza non è stato semplice. Sono passati quasi due anni, infatti, da quando nel 2017 le donne del villaggio, quasi per caso, hanno cominciato a raccontare alle operatrici di Apeiron le conseguenze, per lo più negative, di questa credenza.

Un’usanza antica e pericolosa – “Ogni anno almeno una nepalese muore durante il periodo di esilio nella capanna (detta chaughot ndr.) – spiega Pragyaa Rai, Executive Director di Apeiron Nepal – La messa al bando delle donne che la chaupadi impone è l’espressione di un’imposizione patriarcale inflitta all’individuo di sesso femminile: la donna è considerata impura, peccatrice, un essere umano di seconda classe privato di ogni dignità”. Le origini di questa credenza sono di tipo culturale, sociale, ma anche religioso. “A volte sono le stesse donne che non vogliono rinunciare a questa pratica – racconta Petra Crociati di Apeiron a ilfattoquotidiano.it – hanno paura di far arrabbiare le divinità, in particolare la dea Devi”. Durante il periodo del ciclo, per esempio, le donne non possono toccare gli uomini, non possono consumare latte, yogurt, burro, carne e altri cibi nutrienti, né possono usare coperte calde, ma solo un piccolo tappeto, solitamente fatto di juta. Non possono andare a scuola o nei templi e, nei primi tre giorni, non possono lavarsi. Sradicare il rito diventa ancora più difficile, poi, nei piccoli villaggi, dove la tradizione passa di madre in figlia, come ha raccontato alla onlus Sapana Buda, una donna di 33 anni che proprio lì, nella chaughot, ha visto morire la sua migliore amica. “Sapana ricorda com’era stare in una stalla con le mucche, ogni volta che aveva le mestruazioni. L’ha sempre fatto, a partire dalla sua prima mestruazione quando aveva 13 anni – dice ancora Pragyaa Rai – Ricorda quanto fosse spaventata durante quei giorni e quelle notti, ma non ha mai osato mettere in discussione la tradizione. Con il passare degli anni è semplicemente diventato normale per lei, visto che tutte le sue amiche e parenti femmine osservavano lo stesso rituale”. L’amica di Sapana, però, non è stata l’unica a morire in quei tuguri. “Non si hanno numeri precisi – ci spiega ancora Petra Crociati – e i dati che si hanno sono spesso sottostimati. Solo alcune morti, le più eclatanti, fanno scalpore e la notizia arriva fino in Italia”. È il caso di Amba Bohora, morta intossicata insieme ai suoi due figli nel gennaio 2019, mentre era “in isolamento”. O di Pravati Bogati, che ha perso la vita un mese dopo Amba. O ancora, quello di Gauri Kumari Bayak, anche lei morta asfissiata nella chaughot mentre cercava di accendere un fuoco per scaldarsi, nel gennaio 2018.

La pratica illegale dal 2005 – Le prime capanne per le mestruazioni sono state distrutte dopo il 1996, durante la rivolta maoista che ha visto il partito comunista opporsi al governo, proprio per esprimere la volontà di un cambiamento sociale. Ma solo nel 2005, grazie a una sentenza della Corte suprema del Nepal, la pratica è stata dichiarata illegale. Il divieto però non è riuscito a fermare il rituale, fortemente radicato sul territorio. In molte zone le chaugot distrutte sono state ricostruite e le donne hanno continuato regolarmente a isolarsi. “Nel tentativo di fermare il fenomeno il governo nepalese insieme ad alcune organizzazioni non governative, ha progettato alcune campagne di contrasto che prevedevano la distruzione delle capanne e l’istituzione di villaggi “liberi dalla chaupadi” – racconta Pragyaa Rai – La risposta a questi provvedimenti è stata la ricostruzione delle capanne e l’esilio di nuovo presente nella vita delle donne nepalesi”. Nel 2017 il governo di Kathmandu ha emanato una nuova legge con la quale ha vietato nuovamente il rituale. Azioni pianificate e programmi ad hoc hanno caratterizzato gli ultimi anni, portando l’attenzione sul problema, ma, ricorda Rai, “le donne hanno continuato a morire nelle capanne”.

La consapevolezza delle donne di Ripi – Sono state le stesse donne del piccolo villaggio nepaliano ad affrontare per prime il discorso della chaupadi. “Il tutto è avvenuto quasi per caso – spiega Petra Crociati a ilfattoquotidiano.it – Siamo arrivati nel distretto di Jomla nel 2011 e da allora abbiamo avviato dei progetti di sviluppo dell’agricoltura rurale, per permettere alle donne di avere un’indipendenza economica”. Nel 2017 è iniziato il percorso con quarantotto donne di Ripi. Oltre a impartire nozioni tecniche sui metodi tradizionali di coltivazione dei fagioli e dell’allevamento delle capre, il percorso prevedeva degli incontri mensili con i gruppi durante i quali venivano discussi temi proposti dalle donne stesse. “Il tema più ricorrente era l’igiene nel periodo mestruale – spiega Pragyaa Rai – Durante questi incontri, le donne riunite discutevano anche delle difficoltà e dei traumi che la chaupadi aveva provocato in loro”. Da qui, riunione dopo riunione, le donne di Ripi hanno capito la negatività della pratica, decidendo, al termine degli incontri, di dichiarare il villaggio “libero dalla chapaudi” e di organizzare un evento per annunciarlo alle autorità locali e agli abitanti dei villaggi vicini. Da allora sono passati due anni e oggi 88 donne del villaggio posso dirsi libere da quell’antico rituale. Tutto ciò però non sarebbe stato possibile senza un nuovo modo di vedere la donna, oggi più indipendente e libera. “Ci deve essere una stretta correlazione tra l’aumento del reddito di una donna e la sua fiducia in se stessa per combattere un rituale radicato come quello della chaupadi”, dice ancora Pragyaa Rai, evidenziando come proprio grazie al percorso con Apeiron 48 famiglie di Ripi abbiano aumentato il proprio reddito del 95%. “L’indipendenza economica mette la donna nelle condizioni di essere trattata come pari nelle scelte famigliari – conclude Rai – E questo bilanciamento di potere all’interno delle mura domestiche si riflette nella società, con una maggiore parità di genere”. Nonostante l’importante traguardo raggiunto, il progetto di Apeiron non si ferma qua. Ci sono ancora madri, figlie, mogli, costrette all’esilio che rischiano per tre, quattro, cinque giorni al mese la vita e che grazie all’emporwement economico possono essere aiutate.