Ha fatto scalpore nei giorni scorsi quanto avvenuto in una scuola di Fossò, un Comune tra Venezia e Padova, dove associazioni locali hanno denunciato il fatto che per iscrivere i propri figli a scuola sia stata richiesto ai genitori di riportare l’etnia su un modulo predisposto dall’istituto comprensivo. Nello specifico sulla scheda d’iscrizione era necessario indicare se l’alunno fosse di etnia rom o sinta.
L’atto dell’ufficio scolastico, percepito giustamente come razzista, ha avuto ampio risalto mediatico, è stato denunciato dai genitori degli alunni e alcune forze politiche hanno deciso di muoversi. Francesco Laforgia, senatore eletto con Liberi e Uguali e coordinatore nazionale di È Viva, ha proposto subito un’interrogazione in Senato. C’è chi, anche tra gli attivisti, si è stracciato le vesti, parlando di “marchio” che dalla prima elementare della scuola di Fossò un bambino rom o sinto deve portarsi a scuola per tutta la vita.
Premesso che il modulo d’iscrizione con lo spazio riservato all’etnia è stato distribuito nella scuola di Fossò senza che nessuno alzasse alcuna voce di sdegno, è importante sottolineare come tale atto, sicuramente deprecabile, si inserisce all’interno di una cornice ben più ampia e che ha radici lontane e attori insospettabili. E’ piuttosto una esplicita discriminazione istituzionale che ha visto protagoniste negli anni passati, a livello nazionale e locale, forze politiche di destra, di centro e soprattutto di sinistra, includendo movimenti e liste civiche.
In Italia un genitore rom o sinto non ha bisogno di mettere la croce su una casella per rivelare alla scuola l’origine etnica di suo figlio. Già altri, prima di lui, ci hanno pensato. C’è l’Europa che finanzia progetti per la specifica inclusione scolastica dei bambini rom nelle classi delle scuole italiane. Ci sono programmi nazionali nelle città metropolitane italiane, supervisionati da prestigiosi istituti di ricerca, che operano con azioni negli istituti scolastici e per farlo devono necessariamente individuare l’origine etnica – rom o sinta – dell’alunno. In molte città italiane, a partire da Roma, presso il Dipartimento Scuola ci sono uffici dedicati alla scolarizzazione di bambini “nomadi” con elenchi tenuti costantemente aggiornati. Per i bambini rom che vanno a scuola ci sono azioni, mediatori culturali, pulmini dedicati… e tanti, tanti fondi.
Queste azioni hanno una genesi negli anni Settanta, con le prime convenzioni stipulate tra l’Opera Nomadi, l’Università di Padova e il Ministero dell’Istruzione e oggi, pur se con soggetti diversi, continuano a restare attive. Il grave gesto della scuola di Fossò, quindi, è purtroppo solo una grave “svista” che si inserisce all’interno di una cornice di discriminazione scolastica ben più ampia, che vede da decenni in prima fila ministri, sindaci, assessori, associazioni del terzo settore e che considera sempre e comunque il bambino rom in classe come un “bambino a parte”.
L’esempio lampante lo troviamo nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 2014. Nell’opuscolo un intero capitolo è dedicato agli “alunni nomadi”, pensati perennemente come una minoranza composta da nomadi immigrati.
Il testo specifica: “La partecipazione di questi alunni alla vita della scuola non è un fatto scontato. Si riscontra ancora un elevatissimo tasso di evasione scolastica e di frequenza irregolare. Non bisogna però ritenere che questi comportamenti derivino esclusivamente da un rifiuto a integrarsi: accanto a fattori di oggettiva deprivazione socioeconomica, vi è infatti una fondamentale resistenza psicologica verso un processo – quello della scolarizzazione – percepito come un’imposizione e una minaccia alla propria identità culturale, cui si associano, d’altra parte, consuetudini sociali e linguistiche profondamente diverse dalle nostre. I bambini rom sono quindi abituati ad imparare interagendo direttamente, in modo personale e concreto, con i membri della propria comunità, e per questo appaiono poco inclini a prestare attenzione al discorso, anonimo e astratto, rivolto dall’insegnante all’intera classe. Lavorare con alunni e famiglie rom, sinti e caminanti richiede molta flessibilità e disponibilità ad impostare percorsi di apprendimento specifici e personalizzati, che tengano conto del retroterra culturale di queste popolazioni”.
Probabilmente è leggendo questa aberrazione concettuale che il dirigente della scuola di Fossò si sarà sentito in dovere di predisporre la scheda oggetto delle polemiche che ne sono seguite. E senza la rimozione di ciò che è fissato dalla Stato, la “disattenzione” compiuta in buona o cattiva fede resterà anche in futuro dietro l’angolo.