Premetto che non seguo in tv la serie sul disastro nucleare di Chernobyl. Queste liturgie seriali non mi entusiasmano, giacché amo il format tradizionale del film. Né devo convincermi del fallimento del nucleare che abbiamo conosciuto nel 900, i cui rifiuti saranno un problema non banale per i posteri. Poiché il successo della serie nel mondo anglosassone ha fatto esplodere il turismo verso quella meta, occorre però riflettere sul fenomeno del dark tourism, il turismo noir di chi ama visitare i luoghi della morte; e sulle molle che lo scatenano. È un fenomeno di tendenza, sempre più diffuso e sfaccettato, che negli anni 90 uno studioso inglese, Tony Seaton, definì tanaturismo, un neologismo ispirato alla personificazione greca della morte, Thànatos o Tànato.
C’è il viaggio per vedere davvero la morte in faccia, dove si eseguono ancora pene capitali pubbliche; e questo è tanaturismo vero e proprio, con una tradizione che risale al Medioevo. Un fenomeno oggi circoscritto, per fortuna. Più sovente c’è chi va a rendere omaggio ai luoghi dove la morte è passata, lasciandovi il segno di una eredità saliente, come Auschwitz; o ai campi di sepoltura e i memoriali: tombe, tumuli e monumenti vari. E c’è chi fa una gita per rievocare particolari eventi, come la battaglia di Waterloo o la guerra civile americana o quella spagnola; o soltanto per visitare i musei che raccolgono le testimonianze della morte.
Il turismo noir non è un fenomeno nuovo. Già nel 700 Pompei – la città distrutta dall’eruzione vesuviana del 79 a.C. – diventò una importante meta turistica. Patrimonio Unesco dal 1995, è tuttora l’area archeologica più visitata del paese, seconda solamente al Foro Romano. Ma il fenomeno del tanaturismo fu isolato e studiato solo negli anni 90 del secolo scorso, per comprendere l’ossessione dei milioni di americani – e non solo – che gironzolavano nei luoghi dove il presidente John F. Kennedy era stato assassinato.
Non tutti i turisti noir hanno un interesse morboso. Alcuni hanno un genuino interesse storico, per altri si tratta del contorno di una vacanza più articolata. E, spesso, il visitatore intende approfondire la conoscenza di atrocità o di oscure eredità del passato, per riflettere su ciò che andò male e imparare una lezione affinché gli errori non si ripetano in futuro. Non mancano però comportamenti poco adeguati. A giugno, qualcuno ha condiviso su Twitter la foto di una visitatrice di Chernobyl che metteva in mostra la biancheria intima sotto la tuta anticontaminazione, ben aperta. Non è certo che si trattasse di Chernobyl, né che la foto fosse autentica. Molti fotografi professionisti ritengono comunque poco rispettoso di questi luoghi scattare immagini, una pura esibizione di narcisismo, soprattutto quando prende la forma del selfie.
It’s wonderful that #ChernobylHBO has inspired a wave of tourism to the Zone of Exclusion. But yes, I’ve seen the photos going around.
If you visit, please remember that a terrible tragedy occurred there. Comport yourselves with respect for all who suffered and sacrificed.
— Craig Mazin (@clmazin) June 11, 2019
C’è chi, a posteriori, pensa che sia bene coltivare economicamente la memoria del disastro, come il neo-presidente dell’Ucraina, Volodymir Zelensky. Per decreto, ha sancito la nascita di un corridoio verde per i turisti nella cosiddetta “zona di esclusione” intorno alla centrale. In fondo, Volodymir faceva l’attore, il regista e il comico: non gli manca il senso dello spettacolo che Guy Debord avrebbe senz’altro apprezzato. L’iniziativa segue all’inaugurazione del nuovo scudo protettivo, un’enorme matrioska di quasi 40mila tonnellate di ferro, policarbonato, calcestruzzo e inerti, del modico costo di più di due miliardi di euro. Dovrebbe durare almeno cent’anni, a favore della sicurezza non solo dei turisti noir, ma anche di tutti noi. Più del duomo costruito alla fine degli anni 70 nell’atollo di Bikini, isole Marshall, per confinare il cratere prodotto dai test nucleari condotti tra il 1946 e il 1962. Un sarcofago che mostra i segni del tempo e fa preoccupare, per il momento, solo gli abitanti dell’arcipelago delle Figi e della Tonga.
Non tutti la pensano come il presidente ucraino. Alcuni siti, potenzialmente noir, cercano di resistere a questa forma di turismo. In Giappone, nella prefettura di Fukushima – dove il terremoto del 2011 scatenò lo tsunami devastante che causò il peggior disastro nucleare di questo secolo – le autorità si sono ben guardate dal favorire questo tipo di turismo. Hanno invece promosso la regione come luogo sicuro e interessante da visitare, concentrandosi sul “turismo della speranza”. Uno spazio fisico e culturale, ricco di storia, bellezze naturali e fantastiche attrazioni turistiche. Una reazione positiva al disastro.