Circa 40 diversi capitoli del bilancio dello Stato. In queste voci, non meglio identificabili, è finito il trattamento di fine rapporto di chi non ha aderito alla previdenza complementare. Che ha di fatto complessivamente prestato al Paese circa 34 miliardi di euro in dieci anni senza saperlo e senza ricevere la giusta remunerazione o le adeguate garanzie sulla restituzione del denaro
Circa 40 diversi capitoli del bilancio dello Stato. In queste voci, non meglio identificabili, è finito il trattamento di fine rapporto (tfr) dei lavoratori delle aziende private con oltre 50 dipendenti che non hanno aderito alla previdenza complementare. Almeno per il periodo che va dal 2007 al 2011. Lo si legge in un documento sottoscritto dal capo di gabinetto del Tesoro Vincenzo Fortunato in una missiva per la Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti datata 1 agosto 2011, quando il dicastero era guidato da Giulio Tremonti.
Si tratta della risposta ai rilievi mossi dalla magistratura contabile sull’utilizzo statale dei circa 3 di 5 miliardi di euro dei lavoratori che le imprese private da 12 anni versano ogni anno all’Inps, con tanto di motivati allarmi sui pericoli di un utilizzo improprio di quel denaro. Che viene utilizzato dall’amministrazione centrale senza rendicontarlo, come invece è prescritto dalla legge, né tanto meno programmarne la restituzione, come ricostruito dal Fatto Quotidiano lo scorso 10 giugno.
La questione non è da poco, viste le cifre in ballo: nei primi 10 anni di vita della riforma i lavoratori italiani del settore privato hanno di fatto complessivamente prestato allo Stato circa 34 miliardi di euro senza saperlo e senza ricevere la giusta remunerazione o le adeguate garanzie sulla restituzione del denaro. Eppure nella risposta ai magistrati contabili data primo agosto successivo, Fortunato spiega che è “sconveniente” per il governo andare a fondo: scoprire che fine hanno fatto i soldi depositati dalle imprese sul fondo di tesoreria dell’Inps per accantonare i Tfr è un’operazione complessa, che potrebbe generare un enorme dispendio di energie in buona parte inutile, in quanto arrivare a delle certezze non è possibile.
“Sentito l’avviso dell’Ufficio Legislativo Economia, si concorda con quanto rappresentato dal citato Dipartimento circa la sconvenienza dell’esecuzione degli ulteriori approfondimenti di carattere gestionale sull’utilizzazione del Fondo Tfr – si legge nella missiva – stante la complessità e la gravosità dell’attività (sia per il coinvolgimento di gran parte dei Dicasteri che per la parcellizzazione degli interventi, complessivamente confluiti negli stanziamenti di circa 40 capitoli di bilancio), e l’esito non completamente attendibile (per alcuni fondi finanziati non è facile stabilire la quota parte sicuramente ascrivibile alle risorse Tfr)”. Pertanto, “salvo diverso avviso di codesta Corte” è stato ritenuto “non opportuno assumere un’iniziativa in tal senso”, conclude la lettera che ha così finito per vanificare l’operato dei magistrati contabili.
Il momento storico non è del resto dei migliori: in quelle settimane il quarto governo Berlusconi e l’Italia intera sono travolti dalla sfiducia dei mercati, con lo spread che arriva a sfiorare quota 400 punti. Il 5 agosto del 2011 Roma riceverà un’inedita lettera firmata dal governatore uscente della Bce Jean-Claude Trichet e dal suo successore designato Mario Draghi, che chiedono drastiche misure all’esecutivo italiano in cambio del sostegno della Banca centrale contro la tempesta. Sono i primi passi verso la strada della capitolazione dell’esecutivo avvenuta il 12 novembre del 2011 e dell’incarico di premier all’ex rettore della Bocconi, Mario Monti.
Tanto quindi sarebbe dovuto bastare ai magistrati contabili che a proposito dell’utilizzo del Tfr per le spese correnti dello Stato e, quindi, per ragioni diverse da quelle indicate dalla legge, avevano parlato di tassazione occulta ovvero di “esproprio” ai danni dei lavoratori del privato e soprattutto delle generazioni future, nel caso in cui lo Stato si venisse a trovare nella necessità di restituire quel denaro per mancanza di flussi in entrata e aumento di quelli in uscita.
Argomento, quest’ultimo, che il Tesoro supportato in toto dal ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, in una memoria del 7 ottobre 2010 aveva respinto sostenendo che “il sistema a ripartizione (quello in cui i contributi versati dai lavoratori attivi non sono destinati ad un conto individuale, ma al pagamento delle prestazioni anno per anno, ndr) risulta in equilibrio quando l’ammontare dei flussi in entrata (contributi) risulti pari o superiore a quello dei flussi in uscita (prestazioni), ne consegue che il fondo Tfr risulta in equilibrio (anche nel medio e lungo periodo) se la crescita annua dei monti retributivi risulta superiore alla crescita delle prestazioni”.
Per la Corte dei Conti però la spiegazione convince a metà, anche perché non c’erano dati attendibili su lavoratori e imprese coinvolti dall’operazione. E con il senno di poi non si può che concordare: dal 2008 al 2017 complice il pessimo andamento dell’economia e del mercato del lavoro, il flusso in entrata è diminuito progressivamente a scapito di quello in uscita. Un esempio su tutti: sia nel 2008 che nel 2017 le imprese hanno complessivamente versato all’Inps circa 5,7 miliardi di euro. Undici anni fa, però, la quota che è rimasta allo Stato dopo il pagamento delle prestazioni è stata di 4,2 miliardi, nel 2017 di 1,8 miliardi.
Del resto la finalità di utilizzo del denaro che avrebbe dovuto essere sostegno all’economia e, quindi, all’occupazione, è stata disattesa. Anche perché bollata dal Tesoro nella stessa missiva come di “natura prettamente politica, con conseguente apprezzamento, da parte del Parlamento, delle finalità alle quali destinare prioritariamente le risorse resesi disponibili, in sede di definizione della manovra 2007-2009”.
Con il suo intervento, la Corte riesce almeno a spuntare delle promesse di monitoraggio al ministero del Lavoro con l’obiettivo di verificare se effettivamente il Fondo di tesoreria sia sempre in equilibrio grazie ai contributi dei lavoratori attivi. Un dubbio legittimo soprattutto in tempi di crisi. Anche perché, come rileva il Tesoro, nel corso della vita, un lavoratore percepisce almeno 7 volte il Tfr. E cioè ogni qual volta cambia azienda, perde il lavoro oppure chiede anticipi per comprare casa o per pagare le spese mediche.
Non a caso il ministero del Lavoro nel maggio del 2011 aveva confermato per iscritto alla Corte l’impegno a monitorare la situazione dei lavoratori, incaricando l’Inps di “corredare il bilancio del fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto con un apposito allegato statistico in cui siano contenuti ulteriori dati, anche in forma aggregata, circa i soggetti, datori di lavoro e lavoratori, le tipologie di lavoro, la loro durata, le nuove dinamiche di lavoro”. Dati che il dicastero di Maurizio Sacconi riteneva “utili al fine di effettuare, a garanzia della massima trasparenza, ogni approfondimento sugli andamenti gestionali del fondo in oggetto e sugli impieghi delle relative risorse, a conferma del più alto livello di attenzione e vigilanza possibili sul tema”.
Talmente tanto che ancora oggi queste informazioni relativamente alla situazione delle imprese, dei contributi, dei lavoratori e della consistenza del fondo, non sono agevolmente reperibili, visto che all’Inps più di venti giorni non sono bastati a trovarle.