Una lettera di dimissioni dell’azienda ospedaliera “Santi Antonio e Biagio” di Alessandria ha creato sconcerto e indignazione per aver riportato in chiaro le preferenze sessuali del paziente. Viene raccontato dal malcapitato che durante un ricovero per un mal di testa (durante il quale il trattamento subito è stato quantomeno discutibile), gli è stata rilasciata una lettera di dimissioni che così recita nell’anamnesi: “Lavora come cuoco. Fuma circa 15 sigarette al dì, beve saltuariamente alcolici. Nega allergie. Compagno stabile. Omosessuale”.
Effettivamente il dato imprudentemente riportato nella lettera di dimissioni appare discriminatorio e sono seguite proteste sui social, ma anche giustificazioni sull’operato dell’ospedale, riassumibili sinteticamente in una ipotetica e discrezionale necessità di indagine per verificare patologie infettive di carattere sessuale.
L’ospedale, successivamente all’increscioso episodio, con atteggiamento collaborativo ha precisato che “l’anamnesi deve raccogliere tutte le informazioni personali e cliniche utili all’eventuale processo di cura” e che lo stesso garantisce la sua disponibilità ad andare incontro “alla richiesta di rettifica del referto, anche se la stessa come da nostra prassi è stata concordata al momento dell’anamnesi, quando il paziente ha voluto che il redattore sottolineasse alcuni aspetti e ne omettesse altri”. In qualche modo, quindi, l’Ente ospedaliero lascia intendere che sia stato lo stesso paziente a richiedere l’inserimento del dato sulla sua omosessualità e questo appare quantomeno poco plausibile nella ricostruzione della vicenda. Più plausibile che l’operatore sanitario di turno abbia operato con leggerezza, omettendo di richiedere come da prassi ospedaliera il consenso per l’inserimento di una notizia così delicata.
La questione può apparire di lana caprina e amplificata nella sua percezione a causa della leggerezza tipica delle chiacchierate estive sotto l’ombrellone, ma non è così; anzi questi aspetti sono delicati e complessi, tanto che sul punto ha ritenuto di dover intervenire anche il Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, con una lucida intervista nella quale ha opportunamente precisato che il dato sull’omosessualità del paziente “è un dato sicuramente irrilevante ai fini della diagnosi, come anche delle prescrizioni terapeutiche o di comportamento”.
Soro ha anche evidenziato che “prima ancora della violazione delle norme in materia di privacy, colpisce l’evidente inutilità delle informazioni consegnate al medico di famiglia e a quanti altri che, per le più diverse ragioni, avranno necessità di prendere visione del foglio di dimissione”. In particolare, prosegue Soro “in quanto idoneo a rivelare l’orientamento sessuale, quel dato è qualificato dalla disciplina privacy come meritevole di una tutela rafforzata che ne circoscrive al massimo le possibilità di circolazione, proprio per impedire ogni possibile discriminazione su questa base. Pertanto, l’indicazione di tale dato, in assenza di alcuna esigenza, all’interno di una lettera quale quella di dimissione che deve essere poi consegnata a soggetti terzi rispetto all’interessato, se non altro il medico di base, è sicuramente eccedente e, come tale, illegittima e discriminatoria nei confronti del paziente”.
In poche parole, una richiesta specifica sulle abitudini sessuali di un paziente può essere più che opportuna in un reparto infettivo, laddove un medico è tenuto ad indagare con cura sulla patologia lamentata, ma occorre sempre chiedersi quanto sia indispensabile riportare su un referto di dimissioni ogni antefatto che ne abbia determinato poi, realmente, la diagnosi finale.
È pur vero che la lettera di dimissioni è personale, ma dobbiamo ricordarci che essa viene registrata nei sistemi informativi dell’ospedale e potrebbe in seguito comporre il Fascicolo Sanitario Elettronico del paziente (ed è utile ricordare che secondo l’attuale normativa è il paziente a decidere con specifici consensi cosa possa essere riportato nel Fse). L’informazione potrebbe arrivare quantomeno nelle mani del medico curante, oltre che di vari operatori sanitari dell’azienda che ha operato il ricovero.
Il principio alla base della normativa in materia, in un contesto ormai digitale e quindi più pericoloso per la diffusione di questi dati, rimane quello della minimizzazione dei trattamenti. Solo il dato pertinente e non eccedente rispetto alle finalità della raccolta può essere trattato, a maggior ragione se con sistemi elettronici e se esso riguarda specifiche categorie di dati personali che possono facilmente generare discriminazioni (come appunto dati sanitari o relativi a gusti sessuali).
Insomma, il digitale è senz’altro un valido alleato per il nostro sistema sanitario, purché al centro rimanga il paziente anche con le sue scelte di consentire o meno la condivisione di certi dati così delicati che – se superflui ai fini di successive cure – è bene che rimangano riservati a contesti più cartacei o – meglio ancora – confinati nella semplice memoria di un medico e ai suoi obblighi deontologici di riservatezza.