Come la devo chiamare? Professore?
Maestro.
La domanda gliel’avevo posta riprendendo un gustoso aneddoto che aveva appena finito di raccontare alla Residenza di Ripetta a Roma.
Mi chiamasse Andrea, Andrea Camilleri, mi rispose – giocando divertito con la nota autopresentazione del personaggio di Ian Fleming – con la sua voce roca di fumo, ruvida come una carta vetrata, di quelle che usi per squatriare il legno delle porte prima di passarci la prima mano di vernice. L’ho conosciuto così Andrea Camilleri. Poi ci fu uno scambio di libri a casa sua, in via Asiago, ma in realtà lo conoscevo e c’ero in confidenza da parecchi anni, quasi una ventina.
Lo conoscevo attraverso quello che aveva scritto. Me lo ricordo ancora il primo libro che lessi. La Forma dell’Acqua, si chiama. Me lo aveva consigliato un amico caro, uno dei pochi che, se ti consigliava un libro, non c’era verso che sbagliasse. Addirittura Carmelo Volpe, libraio in quel di Catania, aveva una sua speciale garanzia. Ti appioppava un libro. Poi ti diceva, ed era un patto d’onore, leggilo, se non ti piace me lo riporti e te lo cambio, anche tra un anno. Devo dire che non ho mai approfittato della “garanzia”, perché i consigli di Carmelo erano Cassazione.
Quel pomeriggio me lo aveva messo sul banco insieme ad un libro di un altro scrittore che allora non conoscevo, tale Carlo Lucarelli, col quale si sarebbero intrecciate vicende, inchieste e un certo numero di mangiate di pesce insieme alla risoluzione di un cold case che a Camilleri sarebbe piaciuto davvero tanto.
La Forma dell’Acqua fu l’inizio di un rapporto che, col tempo, divenne abitudine, ma nel senso buono della parola. Sapevi che Camilleri, la sua parola scritta, ci stavano sempre. Quando pigliavo un aereo per la coda, magari rischiavo di perderlo per quei tre minuti passati in libreria per portarmi in cabina un suo libro, perché con Camilleri in saccoccia non viaggiavi solo e la compagnia era sempre buona, mai invadente, capace di accarezzarti il cervello e far funzionare la tua intelligenza. E poi c’era la gara: ci sarei arrivato prima della fine a capire chi era il colpevole, o peggio, qual era la macchinazione del destino, la beffa che il fato giocava alla vita delle donne e degli uomini che popolavano i suoi libri?
E infine c’era lui. Salvo Montalbano, quel commissario che per certi versi somigliava a mio padre. Sbirro anche lui, disincantato e senza molte speranze di redenzione. Esattamente come Montalbano, che combatte le sue battaglie non perché pensa che lo Stato (e poi, chi è lo Stato? I politici? Il signor Quistori? Il capo del governo?) ma perché alla fine pensa che la Giustizia (quella vera, non quella delle carte e dei Tribunali) sia l’unica forma di riscatto per i puvirazzi. I Vinti, li avrebbe chiamati Verga – nei suoi romanzi muoiono patendo, senza giustizia e senza riscatto. Ma qui i Vinti alla fine – seppur patiscano un destino infame – una giustizia, catartica se si vuole, alla fine la ottengono e la ottengono anche se Salvo Montalbano ogni tanto le regole le ammansisce alla Giustizia, le procedure se le scorda e con i fetenti riesce ad usare anche la menzogna (lo sfunnapedi) per incastrarli e mandarli dove devono stare.
Non è un buonista, Montalbano, e non lo era neppure Camilleri. Anzi, lo scrittore e il personaggio conservano la dote ultima che rimane alle persone perbene di questo Paese disgraziato: quella di indignarsi, anzi di incazzarsi pesantemente e magari pigliare a pagnuttuni qualcuno dei fetenti che scorrazzano per questa Italia incarognita.
Camilleri poi è stato un riconciliatore. Mi ha riconciliato con la mia terra. La terra che mi aveva cacciato, fatto a pezzi e magari cercato di levarmi la pelle. Mi ha riconciliato con la Sicilia che ci portiamo dentro tutti noi nati impastati con le sue crete dorate, con le sue polveri nere e con i colori violenti, privi di requie che ci impongono le sue infinite estati.
Riconciliarsi non è facile ed è un processo che richiede maturità; soprattutto, chiede di eliminare il rancore e imparare a coltivare la nostalgia. Camilleri siciliano emigrato quella nostalgia, piano piano, me l’ha fatta scoprire. Mi ha insegnato a non temere la tenerezza del ricordo. Lo ha fatto con le nuotate di Montalbano nel mare del Sud-Est, con gli arancini di Adelina, con le case dei contadini che profumano di fave e finocchietto selvatico sulle colline coperte di sassi bianchi e erba arraggiata e caparbia che, come molti siciliani, è dura a morire. Lo ha fatto con la sua eleganza, con la sua raffinatezza intellettuale che racconta la parte migliore del mio popolo. Perché in Sicilia puoi trovare il peggio, e lo trovi eccome, ma puoi trovare il meglio. Solo che il meglio sta svanendo, soffocato dal nulla.
Morto Sciascia, siamo tutti orfani di un maestro. Di uno che ci dia la chiave filosofica per affrontare questi tempi feroci. Andrea Camilleri, che di Sciascia fu amico e confidente, diceva di fare il cuntatore di storie. E così avrebbe voluto che calasse il sipario su di lui: finendo il suo cuntu in piazza con gli amici. Ma Camilleri era anche e soprattutto altro, era una coscienza alta che stiamo perdendo. Era la nostra morale che purtroppo si dilava in colate di fango putrescente.
Cosa ci rimane? Nulla o poco più. Ci rimane un mondo sfregiato dall’odio e dall’ignoranza. Ma non dell’ignoranza dei puvirazzi di Vigata. No, l’ignoranza di quelli di mezza botta, come li avrebbe chiamati Montalbano. L’ignoranza che diventa odio violento contro chi sta peggio. Rancore, odio, violenza contro i deboli. Questa Italia Camilleri ha provato a raccontarla, infilandola dentro gli ultimi libri. Ma non credo avrebbe mai trovato tutte le parole per raccontarci il suo sconsolato dolore. Un dolore che ereditiamo, che è il nostro. Per lui che ci ha lasciati, sempre troppo presto, e per noi che qui restiamo a tribolare.