In Spagna l’economia e la politica viaggiano su binari paralleli, sono oramai quasi cinque anni che non si intersecano. Una distanza che alimenta un enigma e un paradosso. La politica è avvitata in una crisi istituzionale senza precedenti: dal dicembre 2015 si è chiusa un’epoca, quella della stabilità e dell’alternanza tra socialisti e conservatori. La dirompente entrata sul proscenio della politica di nuove formazioni, quali la sinistra radicale di Unidas Podemos, i centristi liberali di Ciudadanos e da ultimo l’ultradestra di Vox, ha spezzato antichi equilibri poggiati sul bipartitismo, creando l’instabilità propria dei governi di coalizione.

Un senso di smarrimento collettivo pervade la Spagna dopo le dichiarazioni del premier facente funzioni, il socialista Pedro Sánchez, che ieri ha fissato paletti invalicabili all’ipotesi di alleanza con la sinistra radicale. Pablo Iglesias, leader di Podemos, non è gradito nella compagine governativa, né sono graditi gli uomini più in vista della formazione di sinistra: l’unica apertura venuta dai socialisti è per esponenti di area con competenze specifiche nei dicasteri (pochi) che andrebbero a riconoscersi. Sánchez non ha apprezzato la contromossa di Iglesias il quale, seguendo un copione che ricorda lo stile dei Cinquestelle italiani, ha convocato un referendum tra i suoi chiedendo l’opinione della base su un governo di coalizione oppure su un appoggio esterno.

Uno stallo dal 28 aprile, giorno delle ultime consultazioni politiche, che determina il blocco del Congresso già dal 4 marzo, data dello scioglimento della precedente legislatura. Una paralisi che non consente nemmeno la formazione delle Commissioni parlamentari, per molti un precipizio istituzionale che non fa decidere sul rinnovo del Consejo General del Poder Judicial (l’equivalente del nostro Csm), sulla riforma delle pensioni, sulla redistribuzione delle risorse a favore degli enti locali. Persino il patrimonio culturale risente della incapacità della nuova fase della politica iberica: il Museo del Prado, il simbolo culturale della Spagna, attende da anni lo sblocco del finanziamento statale per il programmato maquillage affidato all’archistar londinese Norman Foster.

All’enigma della politica corrisponde il paradosso dell’economia. Gli analisti convinti che la crescita dell’economia reale, come pure dei mercati finanziari, si fondi principalmente sulla stabilità delle istituzioni dovranno rivedere teorie e convincimenti. La Spagna, negli ultimi anni, è uno dei paesi che segna il maggiore sviluppo nell’Eurozona: nella palude della politica è previsto un tasso di crescita superiore al 2%.

La macchina statale senza guida non solo garantisce il regolare pagamento degli stipendi agli impiegati, ma assicura anche servizi sanitari con buoni standard qualitativi e un sistema educativo efficiente. E che dire dei cantieri per le opere pubbliche già programmate: le infrastrutture si consegnano come prima in un paese che ha sempre fatto buon uso dei soldi pubblici e dei finanziamenti comunitari. La politica è ferma ma i treni corrono veloci: solo due settimane fa il premier socialista (facente funzioni) ha inaugurato la tratta ad alta velocità (el Ave) che collega Granada alle due grandi città del centro-nord e di levante, Madrid e Barcellona. Un paradosso, come quello che si ascoltava a metà degli anni 90 nelle interviste al tecnico svedese Nils Liedholm, quando il barone amava ripetere: “in dieci si gioca meglio”.

Si può fare a meno di un giocatore sul campo, secondo un grande allenatore del passato, così come i dati macroeconomici attuali sembrano dire che si può fare a meno di una cabina di regia di governo. In verità non deve essere proprio così, soprattutto se si pensa che il vuoto della politica di questi anni ha portato la Catalogna a distanziarsi progressivamente dal resto del paese, una ferita ben aperta che non si rimargina generando rancori, sospetti, vacue aspettative, risposte date soltanto nelle sedi giudiziarie.

In queste settimane si vedrà se la Spagna si proietta verso le ennesime consultazioni elettorali – in un gioco bizantino che ricorda le dinamiche politiche dell’Italia degli anni Ottanta – o se per responsabilità “la montagna partorirà un nuovo topolino”, cioè un governo di minoranza. Intanto l’economia viaggia appoggiandosi alla sua inerzia e la politica tira a campare.

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