Una ‘ndrangheta che “ha vestito un abito nuovo“, “presentabile”, “autonoma”, ma rimasta “fedele alla sua “consolidata fama criminale”. È la ‘ndrangheta che ha lasciato la Calabria per trasferirsi al Nord, in Emilia Romagna.  Sono 3169 le pagine che i giudici Francesco Caruso, Cristina Beretti e Andrea Rat hanno riempito per illustrare la sentenza di primo grado del 31 ottobre scorso dopo tre anni di Aemilia: il più grande processo alla ‘ndrangheta d’Italia. Era terminato con 29 assoluzioni e 1223 anni di carcere per i 119 imputati condannati a Reggio Emilia, mentre una settimana prima la Corte di Cassazione aveva concluso il rito abbreviato di Bologna con altre 55 condanne per ulteriori 298 anni di carcere. I giudici riportano le parole del pentito Antonio Valerio: “Signor presidente, a Reggio Emilia siete tutti, nessuno escluso, sotto uno stadio di assedio e assoggettamento ‘ndranghetistico che non ha eguali nella storia reggiana, nemmeno i terroristi erano arrivati a tanto. La ‘ndrangheta qui a Reggio Emilia  è autonoma, evoluta e tecnologica”. Le motivazioni della sentenza entrano nei dettagli dei 201 capi di imputazione ricostruendo il dibattimento e le prove che hanno caratterizzato le 190 udienze svolte nell’aula bunker di Reggio Emilia dal 23 marzo 2016 al 16 ottobre 2018, quando la Corte si è ritirata in camera di consiglio. Ma aggiungono anche valutazioni più generali che inquadrano la sentenza sia dal punto di vista giuridico che storico.

L’Emilia prima di Aemilia – Su questo secondo fronte i giudici introducono un elemento di riflessione richiamando le inchieste precedenti ad Aemilia senza le quali sarebbe monca l’analisi del processo di infiltrazione mafiosa in Emilia Romagna: Scacco Matto, Grande Drago, Edilpiovra, Pandora. E soprattutto Point Breack, per quanto riguarda la caratterizzazione economica della cosca sul fronte della falsa fatturazione e delle truffe societarie. Decenni in cui, scrivono i giudici, prima “si posero le premesse per la progressiva ascesa di Grande Aracri Nicolino al ruolo di vertice della consorteria”, poi si realizzò in Emilia Romagna la trasformazione di imprenditori cutresi trapiantati al nord, che cambiarono pelle passando “da vittime a mafiosi”, come Giuseppe Giglio, Palmo Vertinelli, Antonio Muto classe ’71. Ma anche di uomini delle forze dell’ordine che cambiarono a loro volta pelle, come “l’ispettore capo Cianflone e l’assistente capo Matacera, che ebbero un ruolo investigativo di primissimo piano nel procedimento Pandora” e poi sono finiti “tra gli imputati successivamente condannati per concorso esterno in associazione mafiosa nel presente maxi processo”.

“Oppressi si sono tramutati in oppressori” – Aggiunge la sentenza che “lungo il crinale della ricostruzione storica e giudiziaria delle infiltrazioni mafiose e del successivo radicamento… si disvela la genesi della metamorfosi del rapporto fra affiliati alle cosche mafiose del crotonese e imprenditori conterranei trapiantati al Nord Italia: evoluzione progressiva ma inarrestabile da una condizione di assoggettamento ad uno status di consapevole contiguità alle consorterie criminali” con la prospettiva di sicuri e facili guadagni. Su questo fronte, scrive la Corte, c’è un filo conduttore che collega le operazioni Pandora ed Aemilia: “È quel gioco delle parti che ha visto oppressi tramutarsi in oppressori, ovvero correi degli stessi; la zona grigia che appariva nelle attività investigative avviate nel 2006 ancora ben mimetizzata si è palesata attraverso i molteplici filoni di indagine confluiti nel procedimento Aemilia, portando allo scoperto quel fitto tessuto relazionale in cui è racchiusa la forza della ‘ndrangheta, in grado di infiltrare massicciamente l’ economia legale e il cuore delle istituzioni”.

La lunga scia di sangue – Aemilia non è un processo qualsiasi secondo i giudici, e il lavoro della Dda e delle Forze dell’Ordine che lo hanno generato meritano aggettivi forti: “La straordinaria imponenza delle indagini ha dato vita ad un dibattimento altrettanto imponente, generando un quadro probatorio poliedrico e multiforme di portata gigantesca, imparagonabile rispetto ai contesti processuali tradizionali o ad altri maxi processi. La mole delle prove raccolte nel corso del dibattimento è di tale imponenza da avere imposto al Tribunale, così come alle parti, rilevantissimi sforzi già solo per la sua ragionata sistemazione in modo da costruire un’ordinata piattaforma probatoria”. Ancora: “È stata acquisita in dibattimento una mole smisurata di prove e di indici dimostrativi dell’effettività e dell’attualità della forza intimidatrice del vincolo associativo di cui gli appartenenti al sodalizio si avvalgono”. E viene dimostrata “la pesante eredità criminale del gruppo associativo e dei suoi vertici che si è creata sul territorio emiliano (in specie reggiano) con la violenza e l’intimidazione fin dagli anni 90”. Le motivazioni riportano il lungo elenco di questa scia di sangue che rimbalza tra Reggio Emilia e Cutro: 31 omicidi o tentati omicidi, a partire dall’uccisione di Luigi Valerio, padre di Antonio, nel 1977, fino alle uccisioni nel 2004 di Antonio Dragone e Gaetano Ciampà, passando per le morti eccellenti in Emilia e in Lombardia del 1992 e per la strage al bar Pendolino di Reggio Emilia nel dicembre 1998.

L’importanza dei collaboratori di giustizia – Questa storia giudiziaria, scrive la Corte, “rappresenta la piattaforma logico-probatoria su cui si innesta il complesso delle prove raccolte nel corso del dibattimento, le quali, per la loro straordinaria ricchezza, ampiezza, profondità ed univocità, consentono non solo di giungere alla affermazione dell’attuale esistenza ed operatività, sul territorio emiliano, di un’autonoma associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetistico, ma altresì di ripercorre gli sviluppi del suo insediamento, della sua evoluzione strutturale ed operativa, dalle sue origini alla attualità, consentendone una rinnovata lettura, se non definitiva, certamente più consapevole”. A questa lettura offrono un contributo fondamentale i collaboratori di giustizia, i quali però, dicono le motivazioni con un riconoscimento al grande lavoro coordinato dai procuratori antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi “pur nella loro cospicuità e sicura importanza, non rappresentano affatto il nucleo portante dell’impianto probatorio offerto dalla pubblica accusa, svolgendo piuttosto una fondamentale funzione di integrazione e riscontro delle risultanze delle altre prove acquisite, prime tra tutte dell’imponente mole di intercettazioni ambientali e telefoniche (25.000 contatti che hanno dato corpo nel loro complesso ad una perizia trascrittiva composta da quasi 90.000 pagine distinte in 512 volumi)”. Una prima conclusione della Corte è che “tutte le testimonianze esaminate, riscontrandosi vicendevolmente e confermandosi in punti decisivi di ciascun contributo, attestano l’esistenza a Reggio Emilia e nelle province dell’Emilia, da Modena a Piacenza, oltre che nella bassa Lombardia, di una ‘ndrina distaccata della locale ‘ndranghetista di Cutro, autonoma, seppur collegata ad essa, presente sul territorio sin dagli anni Ottanta-Novanta, e forse prima”.

Il rapporto tra i calabresi e gli emiliani – Ai collaboratori di giustizia le motivazioni dedicano lunghe pagine riconoscendone comunque l’importante funzione: “Grazie ad Antonio Valerio è stato possibile traghettare, attraverso il racconto della sua storia criminale, il passato della associazione mafiosa all’attualità, avendo egli descritto non solo la storia dell’insediamento e dell’affermazione del sodalizio sul territorio reggiano, ma anche le sue trasformazioni fondamentali in senso imprenditoriale”. Trasformazioni “già riferite in particolare da Angelo Salvatore Cortese, e confermate da un autonomo punto di vista prospettico, da altri due protagonisti fondamentali della associazione mafiosa in giudizio: Giuseppe Giglio e Salvatore Muto, che insieme allo stesso Valerio rappresentano perfettamente uno dei tratti caratterizzanti della associazione: la coesistenza sinergica della tradizionale area militare con quella moderna, imprenditoriale”. È quest’ultima la caratteristica più marcata della cosca emiliana e il suo legame più profondo con quella cutrese: “Dietro ai singoli affari è possibile vedere scolpito il rapporto tra il sodalizio cutrese e quello emiliano che, ciascuno nella propria autonomia, operano sinergicamente per la massimizzazione del proprio interesse economico, secondo collaudate modalità di azione attuate tramite soggetti di fiducia che operano come anello di collegamento tra gli affari del sud e quelli ben più generosi del territorio emiliano”.

Aggiunge ancora la Corte: “La formidabile sinergia tra le propalazioni dei collaboratori di giustizia, vecchi e nuovi, e la forza, autonoma, delle altre prove portare in dibattimento, ha restituito al processo e alla collettività uno straordinario strumento per la comprensione di un fenomeno criminale assolutamente allarmante, radicato da decenni sul territorio reggiano ed emiliano e che ha continuato a perpetuarsi nonostante le battute di arresto segnate dalle indagini e dalle sentenze di condanna, adeguando subdolamente la sua veste e la sua azione alla realtà territoriale ed economica in cui era oramai radicato e nel quale aveva diffuso le sue articolazioni ben oltre gli ambienti e i settori socio-economici dai quali era germinato, senza peraltro mai rinunciare ad avvalersi della forza di intimidazione. Ma la storia raccontata dai collaboratori ha messo in evidenza come altri personaggi dell’odierno sodalizio fossero da decenni attivamente presenti al suo interno come parte organica, attiva se non fondamentale”.

Le false fatturazioni e le truffe societarie – Attività principali del loro agire erano quelle illecite sul fronte della falsa fatturazione e delle truffe societarie, a partire dalla generazione di illecite provviste d’Iva a credito attraverso le truffe cosiddette “Carosello” che sfruttano le norme della comunità europea, con la creazione di una miriade di società filtro e cartiere e di un sofisticato sistema di depistaggio. La forza di Aemilia su questo fronte deriva dal patrimonio di indagini che lo stesso procuratore Marco Mescolini aveva coordinato in precedenza: “L’indagine Aemilia trova la sua genesi, rappresentandone l’ideale prosecuzione, in Point Breack”. Già nel 2007/2008 “Paolo Pelaggi (definitivamente condannato nel relativo processo) era operativo in Emilia, tramite società che lavoravano nel modenese, nella zona di Maranello e che trattavano articoli di elettronica”. Pelaggi operava sotto la protezione degli Arena di Isola Capo Rizzuto ai quali faceva riferimento anche Giuseppe Giglio che perfezionerà le frodi carosello. E ciò fa dire alla Corte di Aemilia che “emerge non solo il ruolo di Giuseppe Giglio quale fondamentale soggetto grazie al quale le diverse cosche calabresi, anche in passato nemiche, potevano investire e reimpiegare denari, ma anche l’investimento dei denari della cosca Grande Aracri in questo articolato sistema illecito di reimpiego. L’analisi delle singole operazioni consente di affermare che le società costituite ed utilizzate nel sistema illecito altro non fossero che società che, dietro lo schermo di soggetti intestatari fittizi, consentivano ai loro reali titolari di effettuare fatturazioni per operazioni inesistenti operando, per lo più, come cartiere. L’assenza di sedi e locali attrezzati, di deposti merci adeguati al volume di affari dichiarati, la mancanza di dipendenti o la loro assoluta esiguità, la mancanza di scritture contabili, il mancato pagamento delle imposte dovute, la rapida cessazione della società e l’intestazione fittizia in capo a prestanome, non lasciano, in questo contesto, alcuno spazio per una lettura alternativa”.

Le strategia per imbavagliare la stampa – Tra le tante altre storie su cui si dilungano le motivazioni della corte, merita di essere segnalata dopo una prima lettura quella che i giudici definiscono “Le grandi strategie”. Ovvero azioni “attuate dal sodalizio emiliano per condizionare, addirittura imbavagliare, gli organi di informazione e per cercare il sostegno della politica, individuata quale strumento fondamentale per attuare la controffensiva nei confronti della stampa, colpevole di avere sensibilizzato l’opinione pubblica in relazione al fenomeno della infiltrazione mafiosa sul territorio reggiano, anche positivamente enfatizzando il lavoro della Prefettura, che aveva dato l’avvio alla stagione delle interdittive”. Perché l’altro fattore “di forte destabilizzazione per il sodalizio era rappresentato proprio dall’aumento massiccio delle interdittive antimafia emesse dalla prefettura di Reggio Emilia nei confronti di appartenenti alla cosca Emiliana”. E la Corte ne ricorda i numeri: “Dall’aprile 2010 all’aprile 2012 la prefettura di Reggio Emilia aveva emanato 22 decreti interdittivi e numerose interdittive antimafia. Provvedimenti forniti anche ad altre prefetture che erano stati positivamente enfatizzati dagli organi di stampa locale”. Tanto che il prefetto dell’epoca, Antonella De Miro “si era trovata così esposta alle critiche dei destinatari dei provvedimenti e dei soggetti a loro vicini, che in diverse occasioni avevano prodotto istanze o inviato ambigue missive di protesta. Con queste interdittive, confermate dalle Autorità giurisdizionali amministrative, venivano dunque colpiti una stretta cerchia di imprenditori ritenuti ‘ndranghetisti o comunque contigui alla ‘ndrangheta”.

La posizione di Bianchini – Nelle oltre 3000 pagine di motivazioni sono trattati con dovizia di dettagli i singoli casi, come quelli dei personaggi più noti del processo. Dell’imprenditore modenese Augusto Bianchini, responsabile degli affari con la ‘ndrangheta nella ricostruzione post terremoto, si legge: “Egli non si è limitato a cercare con il sodalizio accordi estemporanei e precisamente definiti nei contenuti, negoziandone caso per caso l’eventuale reiterazione, mantenendosi in precario equilibrio su quel crinale neutro che gli avrebbe consentito di non essere né un imprenditore subordinato né un imprenditore colluso, ma ha consapevolmente e volontariamente varcato quel crinale fornendo un contributo causale alla conservazione e al rafforzamento dell’associazione”.

La famiglia Iaquinta: padre “strategico”, figlio estraneo al clan – Dell’altro imprenditore reggiano Giuseppe Iaquinta, padre del calciatore Vincenzo, sta scritto: “Rappresenta una delle figure maggiormente importanti all’interno della associazione mafiosa, incarnando il volto di una strategia del gruppo finalizzata ad elevare la sua immagine e a renderla presentabile all’opinione pubblica e ad introdurla in ambienti imprenditoriali, politici e, in generale, sociali diversamente non accessibili o, comunque, penetrabili con maggiori difficoltà, in modo da ampliarne la capacità di infiltrazione nell’economia e nel tessuto sociale e politico locale”. Iaquinta junior, invece, ex calciatore campione del mondo condannato a due anni per una irregolare custodia di armi, è ritenuto dai giudici estraneo all’associazione mafiosa. Così i giudici nel motivare la sentenza. “L’estraneità” di Iaquinta “alla associazione mafiosa e lo strettissimo rapporto personale con il padre lasciano il dubbio che egli non abbia agito nel perseguimento della finalità tipica contestata bensì al solo scopo di aiutare il padre“, una figura “strategica all’interno del sodalizio criminoso”. La Procura aveva contestato a Iaquinta l’aggravante di aver agito per agevolare l’associazione ‘ndranghetistica.

Le parti civili – La parte conclusiva del documento è dedicata alle parti civili; a giustificazione della corposa liquidazione del danno riconosciuta alla Cgil dell’Emilia Romagna e alle Camere del Lavoro di Reggio e di Modena si legge: “L’esistenza di un’organizzazione per delinquere di stampo ‘ndranghetistico falsa il normale svolgimento delle regole democratiche e rappresenta un fattore di perturbamento del mercato del lavoro, della contrattazione collettiva ed individuale, della vita economica, la cui tutela è assunta a finalità statutaria dalle associazioni di categoria e sindacali”. Ma a ciò la Corte aggiunge per le due Camere del Lavoro anche un ulteriore motivo di indennizzo, che liquida complessivamente in un milione di euro, perché “le prove fornite dalla parte civile (dati sulle potenziali minori tessere sindacali dovuta alla presenza della ‘ndrangheta e testimonianza del professor Santoro) consentono di ritenere dimostrato, sulla base di un convincente criterio scientifico, anche il danno patrimoniale subito”.

Gli imprenditore compiacenti – In conclusione, dicono i giudici Caruso, Beretti e Rat, “Il confronto della attualità processuale con la storia raccontata dai collaboratori ha fatto emergere non solo una realtà preoccupante per la solidità e stabilità del radicamento del sodalizio, ma anche per la presenza di una vera e propria pletora di soggetti che hanno da tempo costituito, per ragioni personali, affaristiche o criminali, una fittissima trama di rapporti opachi e compiacenti capaci di alimentare l’humus ideale per la proliferazione del fenomeno associativo. Emblematica è la schiera degli insospettabili e fidati intestatari fittizi, pronti a farsi carico, dietro la promessa di facili guadagni, della formale titolarità di beni e società per consentire ai sodali di continuare ad agire indisturbati dietro lo schermo protettivo della intestazione fraudolenta. Il quadro è completato da compiacenti imprenditori, professionisti, direttori di banche, funzionari di posta. Non stupiscono più, ma si comprendono, le ragioni della preoccupante e fitta presenza di queste figure coessenziali alla conservazione e al rafforzamento del sodalizio, non lontane dal confine del concorso esterno”. Le inchieste Camaleonte e Grimilde, successive ad Aemilia e ad essa collegate, ci stanno raccontando quanto sia vera ed attuale questa riflessione.

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

Egr. Direttore, leggo sul FattoQuotidiano.it, nell’articolo a firma del Sig. Paolo Bonacini in cui si da notizia del deposito della sentenza del processo Aemilia, che “uomo di spicco della cosca” sarebbe Palmo Vertinelli. Ho il dovere come suo difensore di precisare che l’imputazione di Palmo Vertinelli, per la quale è stato condannato, è di mero partecipante e, quindi, anche secondo il Tribunale non era né dirigente, né organizzatore, né finanziatore. Ciò esclude che possa essere uno degli uomini di spicco dell’organizzazione. Inoltre, si deve ricordare che Palmo Vertinelli si costituì spontaneamente, allorché ebbe notizia dell’ordinanza custodiale, e che fu immediatamente scarcerato dal Tribunale del Riesame per mancanza di indizi. Non solo: Palmo Vertinelli è stato di nuovo scarcerato il 4 aprile 2018 e nuovamente arrestato il 31 ottobre 2018, il che dimostra come gli elementi a suo carico fossero, e siano, lontani dall’al di là, di ogni ragionevole dubbio. Invito a pubblicare la presente rettifica come doverosa precisazione.
Cordialmente

Ringraziamo l’avvocato Pecorella, per correttezza ricordiamo che su 119 condannati nel processo di Reggio Emilia, Palmo Vertinelli ha la quarta pena più pesante, con 29 anni e 9 mesi complessivi tra rito ordinario e abbreviato. Un mese più di lui ha preso il fratello Giuseppe. I due sono superati solo da Gaetano Blasco (38 anni e 4 mesi) e da Michele Bolognino (37 anni e 11 mesi).

Paolo Bonacini

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