Andrea Camilleri mi ha regalato un’affettuosa amicizia. Per me un orgoglio e un onore. La prima opera di lui che ho letto fu Il gioco della mosca. Una scoperta quasi causale, quando nel 1993 accompagnai a Roma una collega (Marisa Ambrosini) che reggeva la procura generale, cui competeva consegnare al ministro della Giustizia la richiesta di autorizzazione a procedere nel processo Andreotti.

Sapevo bene che era un passo difficile e che prima o poi (più prima che poi) si sarebbe scatenata sulle nostre teste una tempesta di insulti e calunnie assortite, per aver osato violare – e come! – il principio “scherza coi fanti ma lascia stare i santi”. Perciò ero molto teso, tanto che la collega mi chiese preoccupata se avevo il “matapollo”. Per me – piemontese – una parola sconosciuta, che lei mi tradusse come una specie di torcibudella. Sta di fatto che al rientro a Palermo trovai sulla mia scrivania una copia de Il gioco della mosca con dedica: “Così non dovrai più chiedere che significa ‘matapollo’”.

Lessi quel libricino d’un fiato, imparando più cose sulla Sicilia (la quotidianità in particolare) di quelle che avevo appresso leggendo decine e decine di storie e saggi degli studiosi più qualificati. Mi affezionai subito a Camilleri e posso dire di aver poi letto praticamente tutto quel che ha scritto. Persino un paio di romanzi tradotti in francese, miracolosamente godibili nonostante la difficoltà di trasferire in altre lingue il caratteristico miscuglio siculo-italiano di alcuni scritti di Camilleri. Ovviamente ho apprezzato le storie del commissario Montalbano, ma ancor più altre opere, come Il birraio di Preston, La bolla di componenda e La concessione del telefono, nella quale si colgono con chiarezza echi di alcune vicende tormentate della procura di Palermo dei miei tempi, così come ne La gita a Tindari. Ma il mio ego, già di per sé piuttosto spinto, ha avuto come un sussulto quando Camilleri definì ironicamente il mio arrivo a Palermo dopo le stragi “il primo risarcimento del Piemonte alla Sicilia dopo l’annessione dei Savoia”.

Anche di qui l’amicizia, arricchita da incontri e colloqui, per me fonte inesauribile di consigli e commenti sapienti sulla mafia, sulla situazione politica (con le sue derive) e su quant’altro potesse interessare un tizio curioso – come io ero – avido di apprendere da un acuto osservatore “esterno” tutto quel che poteva servire a guardare e capire anche oltre il perimetro angusto della visione burocratico-processuale. Dunque un vero Maestro. Anche di arte culinaria (ma qui entra in gioco la deliziosa signora Rosetta), come quando mia moglie Laura ed io, ospiti in casa Camilleri, gustammo una splendida “monnezza”: un piatto fatto a strati, apparentemente di avanzi (come usava un tempo nella cucina “povera”) , in realtà una somma di squisite delizie che comunicavano serenità e allegria. Un modo speciale di stare in compagnia di cui Camilleri e signora, con la semplicità di chi è grande in tutto, sapevano appunto essere ineguagliabili Maestri.

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