Un impero del gioco d’azzardo gestito dalla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, minacce di morte al giornalista Giovanni Tizian, tentati sequestri, pestaggi, estorsioni, corruzione, intestazione fittizia di beni. Sono alcuni degli aspetti del processo “Black Monkey“, il cui secondo grado è iniziato poche settimane fa nel Tribunale di Bologna. Alla sbarra la cosca che per l’accusa è guidata da Nicola ‘Rocco’ Femia, condannato in primo grado a 26 anni e 10 mesi per associazione mafiosa. Femia, che deve scontare anche altre condanne, tra cui una di 23 anni per narcotraffico internazionale, aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Poco prima della sentenza di primo grado, emessa a febbraio 2017, aveva saltato il fosso, decidendo di farsi pentito.
Sulla collaborazione di Femia, però, sembra che i giudici abbiano diversi dubbi: durante la testimonianza del boss, nell’udienza del 16 luglio, il presidente della corte d’Appello Luca Ghedini lo ha più volte interrotto affermando che non stava dicendo nulla di nuovo rispetto a quanto emerso nel processo di primo grado. Collegato in videoconferenza, Femia ha cercato di dipingersi come una vittima del sistema giudiziario. Ma non solo: si è detto anche vittima di quei mafiosi ai quali si era rivolto tutte le volte in cui aveva avuto bisogno di ricorrere a metodi violenti. Mafiosi di mafie diverse usati come una sorta di service della violenza: camorristi, il clan Sarno e quello dei Casalesi, per quanto riguarda i fatti di Modena e ‘ndranghetisti, in particolare le potenti famiglie mafiose dei Bellocco e dei Mazzaferro, per quelli di Bologna. A dirlo è lo stesso Femia, che lo aveva dichiarato anche negli interrogatori del 2017, quando aveva iniziato a collaborare con la giustizia.
L’impero del gioco d’azzardo illegale – Negli interrogatori, sei in totale tra il marzo e il giugno 2017, il boss ha ripercorso anche i meccanismi del gioco d’azzardo illegale. Quello creato dalla famiglia mafiosa – trasferitasi nel 2002 a Conselice, in provincia di Ravenna, da Marina di Gioiosa Jonica – e dai sodali è stato definito dai giudici un vero e proprio “impero”, che si estendeva anche al di fuori dei confini nazionali e arrivava fino in Inghilterra e in Romania. Un impero legale e illegale: tutte le imprese di gioco d’azzardo che facevano capo a Femia avevano un “mercato parallelo” di schede (quelle che si inseriscono all’interno delle slot machine) contraffatte commercializzate in tutta Italia. “Con l’Arcade – racconta Femia parlando di una delle sue società – abbiamo distribuito solo schede di tipo ‘Black Monkey‘ (da cui prende il nome l’inchiesta, ndr) di cui 500 ‘normali’ ed il resto ‘taroccate'”.
Le schede taroccate – Come avevano spiegato i periti nel corso del primo grado, le schede illegali, quelle “taroccate”, venivano contraffatte in due modi diversi: il primo prevedeva un meccanismo che faceva in modo che solo una parte dei soldi giocati risultasse ai Monopoli di Stato, ma in questa maniera era visibile che alcune schede avevano uno scarso volume e quindi era molto probabile un controllo dell’Amms (Amministrazione Autonoma Monopoli Statali). Il secondo modo era più efficace: ai Monopoli arrivava il dato corretto dei soldi giocati e vinti, ma parte delle vincite non risultava al giocatore: venivano, cioè, contabilizzate ma non erogate. Così, veniva superato il controllo dell’amministrazione finanziaria e a rimetterci non era più lo Stato, ma gli stessi giocatori che avevano una minore possibilità di vincita.
L’azzardo online e la percenutale alla camorra – Ancora più evoluta era la struttura che gestiva il gioco d’azzardo online: nel 2007 Femia ha iniziato a distribuire un nuovo prodotto, “un casinò con tavoli e slot machines sempre però con vincite in denaro”. “Ho iniziato a distribuire questo gioco – racconta negli interrogatori – in varie sale giochi in Italia, da Taranto fino al Nord. Le regioni in cui veniva distribuito questo nuovo prodotto erano Puglia, Marche, Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Toscana”. Un business che poi si amplia anche alla Campania, intrecciandosi con esponenti della camorra: “Sarno Nicola, Irco Ciro, Enzo e Ciappa Pasquale mi dicono che per lavorare in quella zona dovevo dargli 100.000 euro per “entrare” e in più riconoscergli una percentuale favorevole. Mi dissero espressamente che di questo denaro che dovevo dargli una percentuale del 10% era per i detenuti. Acconsentii”. Nicola Sarno è stato poi arrestato per associazione camorristica.
La scalata dell’uomo venuto dalla Calabria – Il business del gioco d’azzardo era in continua evoluzione: nel 2012, dice Femia, “costituiamo una società di fatto per mettere a noleggio dei totem muniti di un programma di shopping online che in realtà consentiva l’accesso ad un sito di casinò online estero con vincita in denaro. Avevamo già installato 5 o 600 totem dalla Sicilia fino alle Marche, ma anche in Campania e in Sardegna, quando sono stato arrestato nel gennaio 2013″. Insomma, l’attività illecita era arrivata a non avere praticamente limiti territoriali. Gli affari di Femia nel gioco d’azzardo erano iniziati dieci anni prima, nel 2002, quando l’uomo da Marina di Gioiosa Jonica in Calabria si trasferisce a Conselice, in provincia di Ravenna: “Ci occupavamo della vendita di schede per macchinette videopoker. Nel giugno 2004 interviene la normativa nuova che introduce il comma 6 che impone il collegamento in rete di tutte le slot. In questo periodo entro in contatto con due soggetti che operavano in provincia di Varese e producevano un videogioco che in realtà celava una slot machines. La slot per l’esattezza si attivava digitando un certo codice sulla tastiera. Ho iniziato a vendere un gran numero di questi giochi guadagnando circa 20.000 euro al giorno. Gli acquirenti di queste schede erano tutti consapevoli del loro carattere illegale ed in effetti allora le sanzioni erano piuttosto blande“.
Le reazioni al “pentimento” di Femia – Quando era trapelata la notizia del “pentimento” di Femia, si era diffusa grande preoccupazione tra le cosche di ‘ndrangheta: con i magistrati di Reggio Calabria, il boss ha sostenuto di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta”: “Io praticamente ero un uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”. Molti meno i colpi di scena, invece, nel processo bolognese, in cui lo scopo principale del boss sembra quello di destrutturare quella che in primo grado è stata riconosciuta come un’associazione mafiosa: come nelle dichiarazioni rilasciate prima di pentirsi, Femia continua a definirsi un “imprenditore” e a difendere i figli, condannati entrambi nello stesso processo per 416 bis a 15 e 10 anni di carcere.
Una delle possibilità che erano emerse dopo l’inizio della sua collaborazione era che le dichiarazioni investissero anche il processo Aemilia: già nel 2015, durante un’udienza di Black Monkey, era venuta alla luce una telefonata risalente al 2012 tra Femia e Michele Bolognino, condannato a 38 anni nel maxiprocesso che si è celebrato a Reggio Emilia. Nell’intercettazione, in cui i due si confrontano in modo acceso su un litigio avvenuto tra il figlio e il nipote di Femia con un noleggiatore di auto, emergeva chiaramente il rispetto che Bolognino riconosceva all’interlocutore.
L’indagine Black Monkey – L’indagine Black Monkey, che ha poi portato al processo, era partita dalla denuncia di un ragazzo, Et Toumi Ennaji, vittima di un tentato sequestro a Imola, alle porte della provincia bolognese. Indagine che si è poi allargata agli altri fatti di rapina ed estorsioni, intestazioni di società, corruzione e – come si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado – “alla vasta e variegata articolazione di reati tutti funzionali a preservare l’operatività dell’associazione per delinquere facente capo al Femia e a garantire impunità, fino addirittura al disegno di eliminare il giornalista Tizian Giovanni, notoriamente impegnato in inchieste sulla mafia, per avere questi pubblicato articoli sulla ‘Gazzetta di Modena’ ove denunciava le attività criminali del Femia e dei suoi”. Il giornalista era finito sotto scorta per le minacce ricevute da Guido Torello, uno dei sodali di Femia che aveva detto, parlando di Tizian, “se non la smette gli sparo in bocca“. Le minacce erano arrivate dopo la pubblicazione degli articoli che raccontavano la principale attività della ‘ndrina: il gioco d’azzardo, definito dal pm Francesco Caleca “il polmone finanziario dell’associazione”.
Non solo azzardo – Ma non c’è solo questo nel curriculum criminale di Femia dal processo di primo grado è emerso come questo business fosse affiancata da una serie di attività che hanno portato i giudici a riconoscere l’associazione mafiosa: nel gruppo al cui capo c’era Nicola Femia si sono concentrati, si legge sempre nelle motivazioni, “managerialità e familismo, relazioni con “facilitatori” che intercedono per accordi; collegamenti con funzionari che assicurano una rete di sicurezza svelando indagini in corso, o con sedicenti o con effettivi appartenenti all’intelligence; antiche e consolidate relazioni con altre organizzazioni mafiose che intervengono in una sorta di mutuo soccorso trasversale alle singole mafie; ma soprattutto una capacità intimidatoria, progressivamente affermata con atti concreti e abituali (visite in gruppo, minacce, estorsioni, pestaggi) che ha garantito sempre più soggezione e omertà in capo a chi ha avuto a che fare con l’associazione, vale a dire un potere diffuso e capillare derivante al clan dalla sola sua esistenza”. Il reato di associazione mafiosa, per cui in primo grado sono stati condannati 11 dei 23 imputati, dovrà essere riconosciuto anche dai giudici della Corte d’Assise di Appello di Bologna, presieduti da Luca Ghedini. La prossima udienza in programma è il 25 luglio: è prevista la testimonianza del figlio di Femia, Rocco Maria Nicola.