Siamo soliti commemorare i giornalisti uccisi in guerra con la formula di rito che li vuole morti per raccontare la verità, ma quando studiamo le loro storie spesso scopriamo che la verità che stavano raccontando era una verità particolare, diversa dalle altre verità di cui si occupano i giornali.

Aveva a che fare con i diritti umani. Ed era la verità più preziosa, perché avrebbe salvato vite umane. Parafrasando un passo di Musil potremmo dire che, Isis l’eccezione, anche l’esercito più feroce aspira a darsi una motivazione ideale, in qualche modo etica, che lo obbliga a negare i propri crimini, a evitare lo scandalo, se non altro per evitare le attenzioni della Corte penale internazionale. Queste prudenze lo costringono a ritrarre gli artigli quando il giornalismo è in zona e potrebbe documentare efferatezze. Dunque i giornalisti, quei giornalisti, con il loro lavoro limitano la ferocia.

Le loro motivazioni in genere sono complesse, includono spirito d’avventura, ambizioni e quel desiderio nobile che è la curiosità, ma il risultato finale è che essi sono difensori della civiltà umana: e per questo vengono assassinati. Di conseguenza dovremmo ricordarli nel novero dei Giusti piuttosto che nella lista dei caduti di una professione. Tanto più perché l’informazione ha, ammettiamolo, una relazione tormentata con i diritti umani. Ci sono giornalisti che di fatto li proteggono con il loro ruolo di testimoni; e giornalisti che al contrario partecipano, volontariamente o no, a quelle operazioni di mascheramento per le quali gravi violazioni dei diritti sbiadiscono o scompaiono del tutto dentro circonlocuzioni furbe.

I secondi in genere non hanno la minima contezza dei Paesi e degli eventi di cui discettano, orecchiando secondo inclinazione o convenienza. Risulterebbero più convincenti se i primi non documentassero a cosa concretamente corrispondono le loro non innocue parole. Così può capitare che nello stesso giorno l’editoriale di un importante quotidiano italiano racconti che la guardia costiera libica “salva” e “riaccompagna” migranti intercettati in mare ai “centri di accoglienza”; e una corrispondenza dalla Libia della freelance Francesca Mannocchi documenti sul sito Middle East Eye come stanno le cose nella realtà.

L’americana Mary Colvin, la corrispondente di guerra uccisa intenzionalmente a Homs dall’esercito siriano, aveva l’impressione che a raccontare i conflitti standoci dentro a proprio rischio fossero in gran parte donne, a discettarne tenendosene prudentemente all’esterno in gran parte uomini. Per quanto negli ultimi trent’anni siano state giornaliste come la stessa Colvin o Maggie O’Kane ad offrire gli esempi più luminosi di coraggio civile, le eccezioni sono troppo numerose perché la regola sia convalidabile. Penso per esempio ad Andrea Rocchelli, il fotoreporter ucciso nel 2014 da soldati ucraini, il più colpevole dei quali condannato la settimana scorsa a 24 anni dalla corte d’assiste di Pavia.

Non ho conosciuto Andrea ma ho conosciuto il padre, persona straordinaria per compostezza e dignità: il figlio non poteva essergli molto diverso. Dove sarebbe oggi Andrea se cinque anni fa non l’avessero assassinato? Forse in Libia. O a Homs, in Siria. O a Khartum, Sudan. Ma dovunque fosse andato, laggiù la sua macchina fotografica e il suo taccuino avrebbero indirettamente tolto un po’ di sofferenza dalla vita di qualcuno. Questo blog è dedicato a lui e ai giornalisti che gli sono sorelle e fratelli nel più nobile tra i rischi.

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