Televisione

La Casa di Carta, terza stagione. Un grande pregio e tanti piccoli difetti, ma sarà un altro successo

Dopo due anni di buen ritiro in località esotiche ritorna la banda de Il Professore per rapinare il caveau della Banca Centrale di Spagna. Solito schema narrativo ma obiettivo politico che si fa esplicito

di Davide Turrini

(++++ Attenzione: possibili SPOILER++++)

“Benvenuti. Un’altra volta”. La Casa di carta, terza stagione, sarà un altro grande successo. Squadra e tattica che vincono non si possono cambiare mai. Registrati i morti a fine seconda stagione, ora rinforzate le truppe (due i personaggi nuovi), si tratta soltanto di fare due cose: ripetere, con variante, la prima grande rapina alla zecca nazionale di Madrid che aveva folgorato i fan (qui diventa l’irruzione nel caveau della Banca Centrale di Spagna); e riannodare i fili di una memoria nascosta nel passato degli amati protagonisti (i legami amicali tra loro) per verificare il patto di fidelizzazione tra spettatore e personaggi pari solo alla dinamica creata al cinema dalla Marvel con i suoi supereroi.

La Casa di carta, stagione tre, ha così un grandissimo pregio – è pensata strutturalmente e spettacolarmente in grande quanto almeno la prima – e ha tanti ovvi difetti che dal primo episodio ci trasciniamo dietro. Le caratterizzazioni di Tokyo, Denver, Rio, il Professore, ecc…, ad esempio, rasentano l’anemica stilizzazione. Fumetti colorati nei contorni e sovrastati da un grande geniale disegno creatore (chiamiamolo con nome e cognome: Alex Pina). Per questo, di fondo, non si piange come per la morte del Dottor Green in E.R. quando in finale di seconda stagione ci lasciava Berlino (Pedro Alonso), sacrificatosi per il bene del colpo e del team di ladri. Berlino era sì personaggio maudit e fascinoso, ma fungeva da pedina di una partita a scacchi ben più ampia.

La Casa di carta, infatti, ha un obiettivo alto, politico addirittura, e il resto che si sviluppa dal sottotetto al pianterreno del progetto, passando dalla messa in scena e dal ritmo elevato che assumono gli episodi nella ricomposizione a livello di montaggio, è tutta una funzione anche un po’ fredda del risultato da ottenere.

La mente (il Professore) e il braccio (armatissimo) composto da donne e uomini in tuta rossa e maschera Salvador Dalì tirano dritti verso questa empatia tutta legata all’extrafilmico. Ovvero vogliono il popolo dalla loro parte prima di mandare in malora lo stato tiranno e torturatore (non dimentichiamoci che l’arresto, con detenzione e tortura di un componente della banda mette in moto la narrazione della terza stagione). Solo che la spiegazione di questo meccanismo “alto” in questi tre anni de La casa di Carta non c’è mai stata. Ecco allora, ad inizio secondo episodio, dopo che la banda si è ricomposta tornando dal buen ritiro delle relative località esotiche, una trafila di bianchi zeppelin alti nel cielo di Madrid far cadere e volteggiare nell’aria 140 milioni di euro in banconote da 50.

Il gruppo di banditi del Professore è generoso e democratico. E la folla impazzisce. La rivolta da populismo piuttosto trendy è servita. La Casa di carta mira prima di tutto a questo: abbozzare un classico anelito di rivolta da primi del Novecento verso le classi dominanti e violente attraverso contemporanee facce e corpi genericamente glamour. Tokyo e Nairobi, le due folli ragazze del gruppo originario, nel loro sprigionare androgina bellezza e furia da combattimento, ne sono l’esempio supremo. Ne cogli il generico fascino, ne intuisci e prevedi l’uso nel megapiano della rapina, ma non riesci a puntellarle nella memoria come personalità significative.

Aggiungiamo anche un altro passaggio chiave nel costruire il mood sbarazzino di protagonisti e narrazione: il coté musicale. La guasconeria dei rapinatori alla Ocean’s Eleven per Soderbergh passava attraverso Little less conversation di Elvis. Figuriamoci se gli omologhi spagnoli che devono risultare ancor più ganzi, anche se un po’ fessacchiotti, non usavano un po’ di black music anni sessanta? Così l’ingresso nel Banca Centrale della banda in mimetica militare, con l’assenso della Guardia Civil, in mezzo ai tumulti della folla, corre al tempo di Harlem Shuffle di The Foundations.  Del resto il budget alzato dal contributo Netflix non sembra essere così evidente. Proprio nelle scene di massa sembra mancare quell’autenticità, quella rabbia antisociale che vada oltre il quadretto di una manifestazione degli studenti delle superiori, con le comparse più dedite a mostrare la felpa all’ultima moda che la determinazione da ribelli.

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