“Malato è il paese”. Con queste parole si apre il sommario dell’editoriale della settimana scorsa di Marco Damilano, direttore dell’Espresso. Malato è il paese che vive con indifferenza e con fastidio gli scandali del più grande partito italiano. “L’indifferenza e i silenzi sui soldi della Lega dimostrano che l’Italia è un paese malato” è infatti il titolo del pezzo.

Damilano lamenta nell’articolo che da tempo sappiamo ciò che accade nei pressi di via Bellerio, ma nessuno se ne cura, e la cosa non solo non desta scandalo, ma addirittura viene vissuta con fastidio anche dalla stampa mainstream, oltre che dall’elettorato, che fa crescere – non solo nei sondaggi, ma anche nelle urne – il partito di Matteo Salvini. Da tempo sappiamo – dice, visto che Damilano riprende proprio il suo pezzo d’esordio come direttore, nel febbraio del 2019: pezzo nel quale parlava di ciò di cui si sta discutendo in queste settimane, ovvero dei presunti soldi russi come “stecca” per finanziare la Lega attraverso l’acquisto di gasolio da parte di un’azienda italiana.

Damilano fa un parallelismo coi tempi che furono, per esempio con il tempo della “doppia frontiera” italiana, quella con il Mediterraneo da un lato e con l’Atlantico dall’altra. Eppure lì non mancavano certo scandali e malefatte. Ma l’indignazione sulla corruzione non c’era, almeno non a livello di mobilitazione popolare. Non c’era l’indignazione durante gli anni in cui si consumava la gigantesca corruzione italiana, perché faceva comodo al sistema, a quei giornali che erano parte del sistema, ai loro editori, e l’opinione pubblica taceva. Absit iniuria verbis: che si tratti di un caso gigantesco di corruzione è da dimostrare, ma l’analogia rispetto alla questione del “silenzio” ci sta: il silenzio sui fatti della Lega – qualunque rilevanza essi abbiano – fa comodo perché la Lega è la garanzia della tenuta del blocco storico. La Lega è in perfetta sintonia, sul piano economico, con le opposizioni: essa rappresenta la garanzia di continuità di una certa visione dell’economia e, in definitiva, dell’Italia. Il resto – i migranti, i gattini, i pranzi e le cene – sono chiacchiere, mobilitazione del pregiudizio.

Dunque non c’è un’indignazione generale su certi fatti perché non c’è una forza politica che la cavalchi. Ai tempi di Mani pulite, i fatti – che peraltro avevano un po’ più di sostanza di questi, mi pare – diedero la stura a un’opinione pubblica che finì a lanciare le monetine a Craxi davanti al Raphael. Ma c’era un “partito” di Mani pulite. Oggi quel partito non c’è più.

L’erede di quel “partito” poteva essere considerato il Movimento 5 Stelle, fondato proprio sull’indignazione e sulla denuncia della corruzione. Non che l’indignazione abbia una sostanza necessariamente politica, ché può certo essere un buon innesco, ma poi… né che l’indignazione sia sempre ben spesa, dal momento che si sentono degli indignati da sganasciarsi dalle risate. Ma tant’è: il solo soggetto esterno, estraneo, incontrollabile, incontrollato, pazzoide era questo Movimento, non compreso nel blocco storico e dunque una mina vagante, un partito considerato non gestibile.

Ma è arrivata la perdita dell’innocenza. Se c’era qualcuno che si poteva e si doveva indignare, costoro erano quelli del M5S. Eppure non si indignano perché con la Lega oggi sono al governo, e sembrano essere dipendenti da Salvini, attanagliati dalla paura di andare a gambe all’aria, consapevoli di aver perso consensi e dunque terrorizzati dal voto. L’unico partito che si sarebbe potuto indignare oggi non può perché deve ingoiare questo ulteriore boccone amaro.

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