Cinque mesi in cella a Bollate sono stati sufficienti per “rileggere” la sua vicenda giudiziaria “comprendendone gli sbagli”. A partire dalla sua “amicizia” con il faccendiere Pierluigi Daccò, oltre a “comportamenti superficiali come le vacanze” in yacht. Il carcere, inoltre, “ha sollecitato in lui un notevole sforzo di adattamento, consolidato da elementi tra cui la fede”. E, anche se volesse collaborare, ora non c’è più “spazio” per farlo. Così, alla luce anche della sua età, Roberto Formigoni lascia il penitenziario alle porte di Milano, dove era rinchiuso dal 22 febbraio scorso dopo la sentenza della Cassazione che ha cristallizzato la condanna per corruzione a 5 anni e 10 mesi.

Della “rilettura” dei fatti per i quali è stato ritenuto colpevole in via definitiva sono convinti i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che hanno disposto la scarcerazione dell’ex governatore della Lombardia, ora ai domiciliari a casa di un suo amico. Il collegio ha inoltre valorizzato il “basso profilo” tenuto in carcere con i detenuti che, in quanto ex politico, gli hanno fatto molte richieste.

Nel provvedimento i giudici riportano anche le dichiarazioni rese nei giorni scorsi durante l’udienza dall’ex presidente di Regione. “Mi conformo alla sentenza di condanna – ha detto giovedì – e comprendo il disvalore dei miei comportamenti”. La “mia riflessione sui fatti del processo”, ossia la corruzione nel caso San Raffaele-Maugeri, si è accresciuta “in carcere”. Dunque, i giudici, in sostanza, da un lato valorizzano il suo “percorso di cambiamento” e, dall’altro, spiegano che ha diritto ai benefici penitenziari, in questo caso ai domiciliari da ultrasettantenne, perché “il presupposto della collaborazione è impossibile”. 

Il carcere, in pratica, per lui sarebbe stato ancora necessario se avesse potuto collaborare con nuovi elementi e ciò a prescindere dell’applicazione, retroattiva o meno, della legge Spazzacorrotti, altro tema sollevato dai difensori Mario Brusa e Luigi Stortoni. Il procuratore aggiunto Laura Pedio, che ha rappresentato l’accusa in primo grado e in appello, aveva depositato una memoria per chiarire che non aveva “elementi certi per ritenere, ma nemmeno per escludere” che l’associazione criminale, di cui facevano parte Daccò e l’ex assessore Antonio Simone, i collettori delle tangenti per Formigoni, fosse “ancora in atto”. E non poteva “escludere l’utilità di dichiarazioni” di Formigoni “proprio per il suo ruolo nella vicenda” anche per recuperare “l’ingente patrimonio” transitato per paradisi fiscali e mai recuperato.

Per i giudici, però, anche se è “pacifico” che il Celeste non ha collaborato nelle indagini e nel processo, per lui ora non ci sono più “spazi” per farlo, anche perché i pm hanno portato solo “presunzioni” e non elementi “per fondare una possibilità” di collaborazione. Anzi, il processo ha ricostruito tutti gli elementi “con pignoleria”. Importante per i giudici, infine, il suo percorso di questi mesi, “lo stile di vita riservato, la resipiscenza”, i “buoni comportamenti”, l’attività di volontariato nella biblioteca del carcere. Alla luce di tutto ciò è “adeguata” la misura domiciliare, anche alla luce del riconoscimento del “disvalore” delle condotte che lo hanno portato alla condanna.

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