Una tanica di benzina può fermare l’Italia, spezzandola in due come è successo con l’incendio doloso di Rovezzano, a ridosso della linea che costituisce la spina dorsale ferroviaria del Paese. Sembrerà strano ma stiamo parlando di cyber security a distanza di una manciata di giorni dal varo del decreto che il Governo ha prospettato come panacea per una problematica che – come i fatti dimostrano – non è di così agevole soluzione.

Il piccolo rogo che ha paralizzato l’Italia ha sostanzialmente colpito due tipologie di infrastrutture critiche (i trasporti e le telecomunicazioni) senza aver avuto alcun bisogno di pirati informatici e di chissà quali sofisticate competenze. L’unico know how (e comunque non è cosa da poco) è dato dalla conoscenza di dove appiccare il fuoco, come farlo, quando procedere.

Su questi tre elementi non si è soffermato nessuno, quando invece era fondamentale sbalordirsi che qualche litro di combustibile fosse stato adoperato proprio dove le fiamme hanno scatenato un piccolo falò dalle conseguenze catastrofiche. Tutti si sono affrettati a concentrarsi sui perché e sul chi – spaziando dai no-Tav alle piste anarchiche e insurrezionaliste – dimostrando una gran voglia di scoprire il colpevole appena iniziata la lettura di un giallo. Il “libro” però non è un semplice thriller, ma una curiosa spy-story dai multiformi contorni.

Prima di puntare il dito sul presunto (non si sa su quale base) colpevole dell’evento distruttivo, varrebbe la pena di domandarsi qualcosa a proposito della precisione chirurgica che ha portato ad accendere il fiammifero (scusate la banalizzazione) proprio lì, quasi si conoscesse omericamente il tallone d’Achille. Come poteva sapere l’emulo di Pietro Micca che in quel punto sarebbe bruciata mezza giornata di chiunque volesse spostarsi da Nord a Sud o viceversa, con disagi e danni che vanno ben oltre il ripristino delle apparecchiature o le lunghe attese sui binari? La criticità di quei pochi metri quadrati era sicuramente nota agli addetti ai lavori.

Progettazione, realizzazione, utilizzo e manutenzione sono gli step in cui anche la minima vulnerabilità è oggetto di attenta valutazione. Parliamo di fasi che hanno visto l’alternarsi di tecnici e professionisti, ditte incaricate e subappaltatori, dipendenti e contrattisti “occasionali”. A conoscere quello e chissà quanti altri punti “fragili” erano probabilmente in tanti, ma la situazione non era certo di dominio pubblico. Ed è proprio quel “quanti altri” che fa salire vertiginosamente la preoccupazione.

Ci si riempie la bocca parlando di sicurezza, di iniziative draconiane, di giri di vite. Episodi come questo dimostrano che la serenità collettiva non si ottiene con frastornanti proclami che finiscono con l’esser rapidamente smentiti. Il “facite la faccia feroce” di radice borbonica appare arrugginito per contrastare efficacemente quel che sta accadendo. Quanto si è verificato palesa una inquietante vulnerabilità e le perdite economiche e finanziarie della giornata nera che ci siamo appena lasciati alle spalle sono persino difficili da calcolarsi. Il fatto, poi, che una simile circostanza possa ripetersi, inquieta ancor più.

La rete ferroviaria dispone di un sistema ridondante di comunicazione oppure se si abbrustolisce quell’unico fascio di cavi se ne paralizza il funzionamento? Esiste una struttura di back-up che, in caso di guasto o di azione dolosa, subentra e consente il by-pass della porzione di rete oggetto di attacco o sabotaggio garantendo la continuità del servizio? Probabilmente no. E il caos del 22 luglio 2019 è destinato a essere una indelebile pietra miliare nella drammatica epopea della vulnerabilità nazionale. Tra un tramezzino e l’altro in un prossimo festoso convegno varrà la pena affrontare l’argomento partendo da quello che non è un accademico case study ma un drammatico episodio che davvero non deve mai più accadere.

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