Il dovere dell’accoglienza ai rifugiati, che trova specifica determinazione e definizione nell’Articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951, sottoscritto da tutte le nazioni democratiche al mondo (ma purtroppo di raro pienamente rispettato) trova almeno nei casi più gravi (e nelle nazioni più civili che davvero rispettano questi impegni) un concreto e valido sostegno, rispettoso della fratellanza verso chi è colpito da gravi sventure.

Non è così, però, per chi semplicemente decide di emigrare senza esserne costretto: per costoro il diritto all’accoglienza varia anche di molto a seconda dei paesi (di partenza e di arrivo), dei loro leader, delle loro regole, delle condizioni economiche, del livello di cultura, ospitalità, aspettative, ecc.

Avendo io la doppia cittadinanza (italiana di nascita e americana di naturalizzazione) ho avuto la possibilità di vedere di persona (e anche sperimentare) le diversità operative e di trattamento che i due paesi offrono in tema di accoglienza. La mia permanenza negli Usa ha attraversato tutto il periodo sia del presidente Bush che quello di Obama e, sotto il profilo “accoglienza”, non ci sono state notevoli diversità di trattamento. Tutto è cambiato invece, e di molto, con l’arrivo del presidente Trump, un po’ per la sua irruenza caratteriale e un po’ anche per l’oggettiva crescita demografica del popolo “latino” (così vengono definiti negli Usa i residenti provenienti dal Centro e Sud America) che ormai potrebbe avere già superato in numero quello di origine “anglofona” (l’anno prossimo ci sarà il nuovo Censimento decennale e si vedrà la reale situazione). Il tema dell’immigrazione è diventato perciò anche in America un tema molto sentito e molto discusso, non solo a livello politico.

Ne parla sul New York Times David Leonhardt, uno dei principali editorialisti, con un articolo che è anche un mini tracciato storico sul tema dell’accoglienza negli Usa. Il titolo è The hard immigration question (“l’ardua questione dell’immigrazione”), dove emerge che persino negli Usa, chiaramente la nazione più variegata al mondo quanto a origini dei suoi cittadini, la crescita numerica dei migranti ha raggiunto un livello che, per molti, è diventato oggi critico (ma anche nel passato non scherzavano se, nel 1920 il Washington Post, riferendosi agli immigrati italiani, li definiva come “degenerate spawn of the Asiatic hordes” – un’incontrollata proliferazione di orde asiatiche. Ma la denigrazione – per dire che superavamo in numero i migranti cinesi dell’epoca – non era a sfondo razzista: ancora oggi l’Ufficio immigrazione, dovendo definire l’etnia di origine di noi nativi europei, forse per differenziarci dai “latini” del Sudamerica ci classifica come “caucasici”).

Leonhardt nota anche che, storicamente, molte delle politiche restrittive sul numero dei migranti da accogliere hanno un “fondo” di razzismo piuttosto evidente, e oggi non è molto diverso (anzi, con Trump è sicuramente peggio!).

Tuttavia un attento esame dei periodi storici attraversati dalla superpotenza economica americana mette in evidenza che il periodo di maggiore crescita della classe media americana è iniziato negli anni 40, in coincidenza con l’inizio di politiche restrittive sull’immigrazione. Il noto giuslavorista Irving Bernstein ha spiegato che quelle restrizioni, rendendo più scarsa l’offerta di manodopera a basso costo, ha contribuito ad alzarne il costo, portando così benessere alla fascia media reddituale della popolazione. Ma successivamente (anni 70 e seguenti) l’immigrazione è ripresa con forza contribuendo, insieme ad altre politiche negative, all’attuale forte crescita delle disuguaglianze. Ma qui siamo già entrati in considerazioni macroeconomiche, le cui convenienze dovrebbero essere valutate a seconda dei soggetti interessati.

Le persone, in qualunque luogo nascono, se esso è vivibile, normalmente non hanno alcun interesse ad andarsene da quel posto. Ci sono posti belli (come l’Italia) altri meno belli, come i deserti africani, o i ghiacci dei poli; eppure anche nei meno belli, se non c’è qualche elemento esterno a modificarne l’equilibrio, solitamente chi vi nasce non sente la necessità di migrare. In America nascono persino discussioni tra “creazionisti” ed “evoluzionisti” sulle ragioni (divine o naturali) di restare tutta la vita nel luogo dove si nasce per contribuire alla sua crescita e alla sua conservazione economica e/o ecologica.

La ricchezza di una nazione non deriva dal numero dei suoi abitanti, ma dall’amore per la propria terra e per le proprie genti, amore che è più facile e naturale se è la terra propria e dei propri padri. La tecnologia e l’elettronica hanno ridotto le distanze e ampliato la capacità di comunicare. Anche per questo aumentano ovunque i migranti: le guerre, la povertà e false notizie di facile benessere li spingono ad abbandonare il luogo in cui sono nati per cercare fortuna altrove. Spesso è solo un miraggio che può condurre anche alla morte o ad una maggiore miseria.

Quello che è auspicabile per tutti, perciò, non è il viaggio della fortuna, pieno di rischi, incognite e sempre possibili grosse difficoltà di inserimento e integrazione, ma la possibilità per tutti di nascere e vivere nella propria terra, con i propri cari, la propria gente.

Senza problemi economici o di altro genere nessun popolo decresce di numero. L’emigrazione non deve mai essere incoraggiata, ogni popolo deve avere la possibilità di creare sulla sua terra, dove nasce, un luogo a lui adatto e da lui adattato e migliorato per la sua progenie. In un mondo civile siffatto, coloro che vorrebbero emigrare per andare altrove sarebbero pochissimi e non sarebbero un problema per nessuno.

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