I recenti scandali legati alla lottizzazione interna al Csm, al sistema delle correnti giudiziarie (così simile alle correnti di partito della prima repubblica), ai cenacoli tra togati e uomini di partito per indirizzare e spartirsi le nomine degli uffici più importanti d’Italia hanno portato a suggerire una soluzione drastica: il sorteggio. Il senso della proposta, apparentemente bizzarra, è il seguente: facciamola finita, una volta per tutte, con il modello della scelta pilotata e affidiamoci, invece, al caso.

I membri del Consiglio Superiore della Magistratura siano sorteggiati. A mente dell’art. 104 della Costituzione, il Csm è oggi composto – oltre che dal Capo dello Stato che lo presiede, nonché dal Presidente e dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione – da 24 soggetti “eletti”. Più precisamente, l’elezione avviene per due terzi tra tutti i magistrati ordinari, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune pescando nel novero di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati dopo quindici anni di esercizio (cosiddetti membri “laici”). Il progetto sarebbe quello di far selezionare alla dea bendata sia i membri togati sia i membri laici. Sul punto si è espressa in maniera radicalmente negativa Mariarosa Guglielmi, segretario generale di Magistratura democratica. L’autorevole esponente di una delle correnti più note delle toghe italiane ha motivato il suo dissenso in quanto il sorteggio sovvertirebbe del tutto “il senso di rappresentanza” e annullerebbe il “principio di responsabilità”. Ciò trasformerebbe il Csm in un organo amministrativo di mero governo del personale con conseguente subalternità dei giudici alla sfera politica esterna.

Ora, l’obiezione è interessante, ma si presta ad almeno due contro-obiezioni altrettanto forti, che mettono in campo il concetto stesso di democrazia, le sue prime sperimentazioni e la sua applicazione al campo giudiziario. Quando la Guglielmi parla di rappresentanza fa evidente riferimento a quella che tutti, istintivamente, consideriamo come la cifra stessa della “democrazia”. Perlomeno, così come sommariamente la conosciamo, come ci è stata insegnata, come è addirittura scaturita, ab origine, dal genio greco nelle poleis dell’Ellade e, in particolare, nell’Atene del VI secolo avanti Cristo. E siamo, naturalmente, portati a compiere una grossolana equiparazione tra democrazia e principio elettivo.

C’è democrazia se c’è una scelta consapevole filtrata dal criterio della prevalenza della maggioranza. In verità, sovente si dimentica che la cosiddetta “culla della democrazia” prevedeva – nello schema ideato dalle riforme di Clistene del 508 a.C. – un funzionamento degli organi istituzionali di governo della città, nonché di amministrazione della giustizia, in cui il sorteggio giocava un ruolo dirimente. Soprattutto, e in particolar modo, per quanto riguardava il tribunale popolare, l’Eliea, composto da dieci membri estratti a sorte. Ma anche per quanto riguardava la Bulè, o consiglio dei 500, che aveva funzioni di iniziativa legislativa e di controllo. Ergo, si può ben dire che un metodo siffatto di scrematura (tra soggetti qualificati, s’intende) non rappresenta un vulnus al legittimo “senso di rappresentanza” tipico di ogni sensibilità “democratica”, ma semmai un ritorno alle origini stesse di quella sensibilità. E offre una garanzia straordinaria contro ogni degenerazione della politica applicata alla giustizia in cui il membro del Csm rischia di essere scelto non in ragione dei meriti, ma in base alla logica dell’appartenenza a un clan o dell’aderenza a una ideologia.

E qui veniamo al secondo punto cruciale, quello della distinzione tra chi fa le leggi e chi le applica. Il primo soggetto ha tutto il diritto, il dovere addirittura, di ragionare in modalità “partigiana” e faziosa. La politica, anche in democrazia, è la lotta – mediata da regole condivise di competizione tra opposti schieramenti – per far prevalere una certa idea di come dovrebbe essere gestita, attraverso la legge, la vita dei consociati. L’amministrazione della giustizia, invece, dovrebbe essere la rigorosa, neutrale, imparziale applicazione “a valle” di parametri legali decisi “a monte”. Per tale motivo, ogni magistrato deve astenersi il più possibile dall’inquinare il proprio ruolo, e le proprie decisioni, con considerazioni di carattere politico o, peggio ancora, partitico.

Ciò dovrebbe costituire un “habitus” morale, un imperativo etico. Tale da indurlo a non rendere i propri verdetti in virtù di ciò che egli ritiene più “utile” per la società o più proficuo per le sue personali (e legittime) posizioni politiche, magari attraverso una “creativa” rielaborazione delle leggi emanate dai rappresentanti del popolo. Semmai, il giudice dovrebbe essere guidato, anche in sede di interpretazione, solo dall’esigenza di rispettare lo spirito di una legge che, dai rappresentanti del popolo, è già stata discussa, formata e licenziata. Egli dovrebbe sempre tradurre in pratica i principi ispiratori delle norme; da qui il fondamentale studio non solo degli articoli e dei commi, ma anche dei loro lavori preparatori e dei dibattiti parlamentari donde essi sono scaturiti. Solo in tal modo potremo avvicinarci il più possibile – senza mai toccarle con mano per i naturali limiti dell’umana imperfezione – alle due massime più importanti del nostro sistema giudiziario. Quella scritta in caratteri cubitali sulla parete di ogni Tribunale italiano: “La legge è uguale per tutti”. E quella pronunciata ogni giorno come premessa di qualsiasi sentenza: “In nome del popolo italiano”.

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