Addio replicante. Rutger Hauer è morto il 19 luglio, cinque giorni fa, nella sua casa olandese di Beetsterzwag, dopo una breve e fulminante malattia. L’attore olandese celebre per aver interpretato Roy Batty in Blade Runner di Ridley Scott aveva 75 anni. Ha gareggiato per decenni in popolarità con Harrison Ford proprio per quel ruolo e quel monologo straordinariamente poetico (“I’ve seen things…”) che arriva nel sottofinale del celebre film tratto da Dick del 1982. La pioggia incessante che gli cola sui capelli biondo platino, un rigagnolo di sangue che gli marca il viso, quell’atmosfera sospesa tra la vita e la morte, probabilmente Hauer si è rubato la scena e si è mangiato mezzo Blade Runner (“Scott mi lasciò carta bianca”, ha sempre dichiarato), uno dei film più iconici della storia del cinema.
E dire che per lui non c’era stato alcun problema di casting, come invece era capitato per Ford, ultimo nome dopo quello, tra gli altri, di Dustin Hoffman, Sean Connery e Jack Nicholson, per la parte di Rick Deckard. Hauer aveva già un solido ruolino di marcia soprattutto a livello locale in Olanda perché era diventato celebre grazie all’interpretazione del cavaliere medioevale Floris, protagonista della serie tv omonima del 1969, una sorta di Ivanhoe olanedese, di grande successo in patria, diretta proprio dal sodale Paul Verhoeven. Sarà ancora il regista di Basic Instinct a volerlo nel 1973 in Turkish Delight, un thriller inedito in Italia, e poi ancora nel 1975 in un grande successo cinematografico olandese, Keetjie Tippel, dove interpreta un banchiere, uno dei clienti della prostituta, protagonista di un filmone produttivamente importante ambientato nella seconda metà dell’ottocento.
Nel 1977 è uno degli studenti protagonisti di Soldato d’Orange, sempre Verhoeven alla regia, e ancora con l’amico regista tornerà a lavorare già celebre in mezzo pianeta per Flesh and Blood (1985), altro film storico d’azione, carnale e violento, distribuito dall’americana fu Orion, dove dimostra una capacità performativa fisico-corporea da attore a tutto tondo. Hauer infatti aveva esordito ad Hollywood nel ’74 con The Wilby conspiracy, ma con il crime thriller Nighthawks (Falchi della notte) dell’81 in compagnia di Sylvester Stallone e poi con Blade Runner sfiora la prima fascia delle star statunitensi. Il grande Sam Peckinpah lo vuole in Osterman Weekend, ma Hauer preferisce comunque dimostrare la sua versatilità in quella dimensione tra la ricostruzione storica e il fantasy che lo vede ricco di autenticità e vincente in Ladyhawke (1985) di Richard Donner.
Nell’86 fa venire i brividi il suo autostoppista assassino in The Hitcher, maschera del terrore casuale a funestare il viaggio sull’auto presa a nolo da una giovanissima star dell’epoca, C. Thomas Howell. Nel 1988 la consacrazione autoriale grazie all’interpretazione dell’ubriacone protagonista de La leggenda del santo bevitore: Leone d’Oro a Venezia per il film diretto da Ermanno Olmi. Negli anni novanta tanti i titoli che lo vedono recitare ma pochissime le gioie per lo spettatore. Ricordiamo solo quel Furia cieca, una sorta di action comico con venature samurai in cui Hauer si diverte a vestire i panni di un ex soldato rimasto cieco in Vietnam e che affina i sensi oltre la vista per poi combattere, katana in mano, contro poliziotti corrotti e mafiosi.
Tanti i cameo tra Confessioni di una mente pericolosa e Batman Begins, ma soprattutto curiose le due interpretazioni per due titoli italiani: è il cardinal Marcinkus ne I banchieri di Dio di Giuseppe Ferrara sul caso Calvi (2002), ma soprattutto è Federico Barbarossa nel kolossal padano diretto da Renzo Martinelli che ebbe la sua prima mondiale al Castello Sforzesco di Milano con l’allora presidente del consiglio Berlusconi in prima fila. L’ultima estemporanea apparizione (qualche ciak e la “salma” nella bara) ne I fratelli Sisters di Jacques Audiard in Concorso a Venezia 2018. Hauer lascia la seconda moglie, Ineke ten Cate, e una figlia attrice, Aysha.