Manuel Foffo era assolutamente lucido quando decise di torturare e uccidere Luca Varani al culmine di un festino a base di droga in un appartamento nel quartiere Collatino a Roma nel marzo 2016. Ha agito “d’intesa con Marco Prato“, poi morto suicida in carcere a gennaio 2017. A venti giorni dalla sentenza della prima sezione penale della Cassazione sono state depositate le motivazioni con cui la Suprema Corte ha condannato Foffo a 30 anni di carcere. “Che fosse in grado di intendere e di volere è ciò che abbiamo sempre sostenuto – ha detto Giuseppe Varani, padre della vittima -. Chi ha torturato barbaramente mio figlio uccidendolo non è matto, non è mai stato ricoverato in strutture psichiatriche, ha preso la patente, ha studiato; aveva i vizi di alcol e droga ma sono scelte sue. È maggiorenne e responsabile delle sue azioni e come tale deve pagare”. Per Varani “la condanna sarà sempre insufficiente” perché Foffo “ha fatto una esecuzione, si è macchiato di un omicidio in stile Isis. Mi auguro che non ci sia alcuno sconto per lui che ha condannato a morte il mio ragazzo per i suoi gusti barbari. Non deve avere spazio su questa terra che gli dia pace”.
Le motivazioni – I giudici della Suprema corte, nel documento di quaranta pagine, affermano che la Corte di Appello di Roma ha compiuto una “ponderata disamina degli elementi valutativi” che “non lasciavano spazio a dubbi” sulla “capacità d’intendere e di volere” del condannato. La perizia tecnica compiuta “non consentiva di affermare la sussistenza in capo a Foffo di una condizione psichica patologica inquadrabile come disturbo della personalità” tale da renderlo non imputabile. In questo quadro “privo di rilevanza clinica doveva ritenersi l’abuso di sostanza stupefacente dedotto dalla difesa”.
Nelle motivazioni i giudici ricostruiscono la dinamica in cui si è consumata la tragedia affermando che Foffo e Prato, quest’ultimo morto suicida in carcere, diedero “sfogo alle pulsioni sadiche che si erano già manifestate la notte che precedeva l’assassinio, con l’uscita dei due, a bordo dell’autovettura di Prato, alla ricerca di un soggetto al quale ‘fare del male'”. I giudici della Cassazione spiegano che “è un dato probatorio incontroverso quello secondo cui i correi, non essendo riusciti a individuare un soggetto su cui sfogare le loro perversioni, decidevano di contattare, tramite Prato che lo conosceva, Varani“. Una scelta fatta per mettere in atto “uno schema operativo che prevedeva la neutralizzazione della vittima mediante l’Alcover“, un farmaco con il quale lo stordirono per poi torturarlo fino ad ucciderlo. Secondo i giudici i due contattarono Varani per “infliggergli sofferenze, allo scopo di trarre piacere da tale esperienza, nella consapevolezza che la loro azione avrebbe comportato l’uccisione della vittima”.
I giudici della Cassazione citano, infine, l’interrogatorio reso da Foffo davanti al pubblico ministero il 21 aprile del 2016, in cui “ammetteva pacificamente di avere procurato volutamente delle lesioni non letali alla vittima, nel contesto di ‘tacita intesa’, che aveva determinato la brutalizzazione di Varani, pur non riuscendo a spiegare le ragioni che avevano indotto ad infierire sul corpo già ferito e fortemente debilitato della persona offesa”. E questo, secondo i giudici, valida la decisione di riconoscere l’aggravante dei motivi abietti.