Regge l’impianto accusatorio nel processo “Mala Sanitas”. Al termine di una lunga camera di consiglio, il Tribunale di Reggio Calabria ha condannato ginecologi, anestesisti e ostetriche dell’ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli. Tutti erano stati coinvolti nell’inchiesta del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza che, nell’aprile 2016, aveva provocato un terremoto nell’azienda ospedaliera reggina con l’arresto di 4 medici e altri 7 interdetti dal lavoro perché accusati di falso ideologico e materiale, di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri nonché di interruzione della gravidanza senza consenso della donna.
I fatti si riferiscono al 2010. Per i pm Roberto Di Palma e Annamaria Frustaci all’epoca nel reparto di Ginecologia e Ostetricia c’era un’associazione a delinquere responsabile di gravi lesioni a paziente e neonati. L’associazione non è stata riconosciuta dai giudici del Tribunale che, invece, non ha avuto dubbi sugli errori medici, sulle omissioni e sui falsi. Stando all’inchiesta, condotta all’epoca dai colonnelli Domenico Napolitano e Luca Cioffi, gli imputati avrebbero commesso una serie di reati tra cui la manipolazione delle cartelle cliniche relative alle pazienti (che si sottoponevano a interventi ginecologici) e ai neonati, al fine di occultare le responsabilità dell’équipe medica che aveva preso parte ai singoli interventi.
Oltre al primario Pasquale Vadalà condannato a 4 anni e 9 mesi, sono stati giudicati colpevoli anche altri ginecologi: Alessandro Tripodi (4 anni e 8 mesi di carcere), Daniela Manunzio (6 anni e 2 mesi), Antonella Musella (4 anni), Filippo Saccà (4 anni e 6 anni) e Massimo Sorace (4 anni). Il Tribunale, inoltre, ha accolto le richieste del pm pure nei confronti della neonatologa Maria Concetta Maio (4 anni di carcere), dell’ostetrica Giuseppina Strati (3 anni) e dell’anestesista Luigi Grasso (2 anni e 3 mesi anni). Sono stati assolti, invece, il primario di Anestesia Annibale Maria Musitano, l’ostetrica Mariangela Tomo e l’infermiera Antonia Stilo. I giudici, infine, hanno stabilito il non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dei ginecologi Roberto Pennisi e Marcello Tripodi, così come richiesto dalla stessa Procura.
L’inchiesta era partita dal riascolto di alcune intercettazioni del 2010 che la Dda aveva disposto nei confronti del ginecologo Alessandro Tripodi, imparentato con l’avvocato Giorgio De Stefano, ritenuto dalla Procura il “consigliori” di una delle più potenti famiglie mafiose di Reggio Calabria. Non essendo emerso nulla di interessante circa il collegamento tra il professionista e la ‘ndrangheta, quelle intercettazioni furono accantonate dalla Procura all’epoca guidata dal procuratore Giuseppe Pignatone. Quell’inchiesta, allora coordinata dal pm Beatrice Ronchi (oggi in servizio a Bologna), rimase negli archivi della Procura fino al 2014 quando il colonnello Domenico Napolitano informò il pm Di Palma dei numerosi episodi di presunta malasanità che si sarebbero verificati all’interno del reparto di Ginecologia e Ostetricia degli ospedali Riuniti.
Le indagini successive hanno fatto il resto e hanno consentito alle Fiamme gialle di far luce sul decesso (in due distinti casi) di due neonati, sulle irreversibili lesioni di un altro bambino dichiarato invalido al 100% e sui traumi e le crisi epilettiche e miocloniche di una partoriente. Nell’inchiesta è finito anche il procurato aborto della sorella del ginecologo Alessandro Tripodi. Per gli inquirenti quell’aborto non sarebbe stato consenziente ma, sospettando una patologia cromosomica, il medico fece iniettare un farmaco funzionale all’espulsione prematura del feto determinando l’interruzione della gravidanza.
“Allora chiudete questa cartella in un cassetto – si sente nelle intercettazioni – Chiudila in un armadio, intanto…”. Da quell’armadio la cartella clinica dei pazienti veniva presa e “falsificata ad arte” in modo da garantire ai medici “la reale e sicura via di fuga dall’impunità”. Nel corso della requisitoria, il pm Roberto Di Palma si era detto “profondamente convinto della responsabilità degli imputati” puntando il dito contro i “comportamenti medici imprudenti, imprecisi e imperiti”. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip Laganà aveva addirittura parlato di “bollettino di guerra” da cui emerge il sistema adottato dai medici. Un sistema finalizzato – si sente nelle intercettazioni – a “salvarsi il culo”.