Ha accettato la designazione e ha “baciato la mano” della regina, secondo la formula di rito. Boris Johnson, fresco di nomina alla guida del partito conservatore, è il nuovo primo ministro britannico e prende il posto di Theresa May. “Il mio lavoro è servire il popolo“, ha detto nel suo primo discorso da Downing Street dove ha evocato “un nuovo e migliore accordo” con l’Ue sulla Brexit, “basato sul libero commercio”. Da mesi, però, Bruxelles ribadisce che il negoziato è chiuso e non c’è alcun margine di trattativa. Johnson ha poi insistito sul termine ultimo del 31 ottobre per l’uscita dall’Unione europea respingendo “i pessimisti” che non credono “alla nostra capacità di onorare il mandato democratico” del referendum del 2016. Proveremo che “i critici e i dubbiosi si sbagliano”, ha continuato il nuovo premier britannico, pur ricordando che ci sono solo 99 giorni. L’ipotesi del no deal per Johnson è remota, ma ribadisce che bisogna esser pronti.

Nel pomeriggio il nuovo capo del governo britannico ha comunicato la scelta dei nuovi ministri: due rampanti brexiteer ultrà conquistano poltrone chiave. Dominic Raab, che si era dimesso da titolare della Brexit sotto la leadership di Theresa May, diventa capo del Foreign Office, sostituendo agli Esteri Jeremy Hunt. Mentre Priti Patel, figlia d’immigrati indiani schierata su posizioni di destra radicale nel Partito Conservatore, subentra a Sajid Javid (promosso cancelliere dello Scacchiere) a capo del ministero dell’Interno.

L’arrivo di Johnson a palazzo è stato accolto anche dalla protesta di un drappello di manifestanti, in particolare attivisti di Greenpeace, che la polizia ha rapidamente allontanato, impedendo loro di fermare il corteo del premier entrante. Prima del passaggio formale di consegne, si sono dimessi come preannunciato alcuni ministri del governo May considerati più moderati di Johnson e contrari all’ipotesi (che il premier entrante non esclude) di una Brexit no deal il 31 ottobre. I nomi di maggiore spicco fra coloro che si sono fatti da parte, certamente fuori dalla prossima compagine sono quelli di David Lidington, vicepremier di fatto con May, del cancelliere dello Scacchiere, Philip Hammond, del ministro della Giustizia, David Gauke, e del titolare della Cooperazione Internazionale (e già candidato alla leadership Tory), Rory Stewart.

L’ultimo giorno di Theresa May a Downing Street – Ha chiuso i suoi tre anni da primo ministro in un clima di emozione alla Camera dei Comuni, solo parzialmente sincero. Theresa May, primo ministro mai davvero amata e raramente capace di empatia, lascia l’incarico senza avere raggiunto l’obiettivo di una Brexit concordata, oltre che da una eredità di governo controversa, di cui tuttavia lei non rinuncia a rivendicare alcuni risultati, sull’occupazione e non solo. L’ultimo giorno da premier segue i riti codificati. Un question time d’addio in Parlamento, il pranzo con lo staff a Downing Street – in giardino, in una Londra assolata -, il discorso di congedo. Infine le dimissioni nelle mani della regina per fare spazio al successore Boris Johnson. Essere diventata la seconda premier donna dopo Margaret Thatcher nel Paese che definisce “delle aspirazioni e delle opportunità” è stato “l’onore più grande”, dice nel messaggio conclusivo di fronte al numero 10 col solo marito Philip – “pilastro della mia vita” – al suo fianco. Non senza “un grazie” ecumenico al popolo britannico e al palazzo, e l’augurio di “ogni successo a Boris”. Il finale di partita è chiuso dalla standing ovation compatta del gruppo Tory, inclusi molti protagonisti del suo siluramento interno apostrofati come “ipocriti” da qualche collega d’altri partiti. E anche da quella di alcuni deputati di opposizione. Comunque non manca, a tratti, l’omaggio spesso che in passato le era stato negato: soprattutto da diverse onorevoli donne, anche laburiste o liberaldemocratiche, che le accreditano in particolare l’impegno di governo sulla legge contro le violenze domestiche o contro le nuove schiavitù.

Col leader dell’opposizione Jeremy Corbyn i toni sono invece più accesi (e forse meno ipocriti). Corbyn le rimprovera i passi indietro sul fronte delle diseguaglianze sociali e le chiede di condannare “i piani sconsiderati” di Boris Johnson verso una possibile Brexit no deal, mentre torna a invocare elezioni anticipate. Lei lo contesta su tutta la linea, gli dice “vergogna” per non aver votato l’accordo di divorzio dall’Ue e gli suggerisce di valutare pure lui le dimissioni. Ma alla fine un tributo reciproco arriva, se non altro sul piano personale. May riconosce a Corbyn “la devozione” verso i suoi elettori; Corbyn alla premier uscente “il senso del dovere pubblico”.

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