Il 25 luglio dello scorso anno moriva il capitano d'industria più ammirato del mondo, nonostante luci e ombre del suo operato in Fiat prima e in Fca poi. "L'esempio che ci ha lasciato è vivo e forte in ognuno di noi”, ha commentato John Elkann
È già passato un anno dalla morte di Sergio Marchionne, per 14 amministratore delegato di Fiat, prima, e di FCA, poi, scomparso a causa di una grave malattia che era riuscito a tenere nascosta fino a pochi giorni prima di spirare. La sua dipartita aveva colto di sorpresa persino la dirigenza di FCA, costretta a correre ai riparti in fretta e furia, con una riorganizzazione manageriale fatta di vincitori, come Mike Manley, ex numero uno di Jeep, ora a capo di FCA; e vinti, come Alfredo Altavilla, ex capo della attività Emea di FCA, che ha subitamente rassegnato le dimissioni dalla compagnia italoamericana.
Alla presidenza è rimasto John Elkann, che ultimamente ha fatto sentire come non mai la sua presenza nell’affaire che vedeva destinate al matrimonio FCA e Renault. Nozze poi fallite. Ed era proprio un’ultima fusione industriale da mille e una notte che Marchionne andava cercando prima di ritirarsi dalla guida di Fiat-Chrysler: un definitivo coup de théâtre che lo avrebbe consacrato nella storia dei libri di finanza (dove è finito comunque).
“La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La ‘collective guilt’, la reponsabilità condivisa non esiste. Io mi sento molte volte solo”: una delle tante uscite di un manager carismatico, non ferratissimo in tema di automobili in senso stretto, ma dotato di una visione per gli affari più unica che rara.
E lui quella FCA se l’era caricata sulle spalle da solo, diventandone al contempo padre e padrone, col benestare degli Elkann/Agnelli, rimasti in disparte a godere i frutti delle imprese finanziarie di “Sergio”, a cominciare dal matrimonio con Chrysler, datato 2009. Oggi quel carico è ripartito su più teste: quella di Mike Manley, del direttore finanziario Richard Palmer o del nuovo capo operativo delle attività europee, Pietro Gorlier, strappato alla Magneti Marelli prima che l’azienda venisse ceduta ai giapponesi di Calsonic Kansei per sei miliardi di euro.
“A un anno dalla scomparsa di Sergio Marchionne, l’esempio che ci ha lasciato è vivo e forte in ognuno di noi”, commenta John Elkann, ricordando “decisione e coraggio” di quel cocciuto abruzzese naturalizzato canadese. Un uomo nato nel vecchio mondo, formatosi nel nuovo e capace di trasferire il suo imprinting gestionale a chi gli è succeduto, Elkann in primis. Non è un caso che sia stato proprio il nipote di Gianni Agnelli a portare avanti le trattative con Renault (e con i rappresentati dello stato francese, a cominciare dal ministro dell’economia Le Maire), prendendosi la responsabilità di far saltare il tavolo quando il gioco non valeva più la candela. “Proponendo a fine maggio una fusione fra il suo gruppo, Fiat Chrysler, e Renault, prima di ritirare poi l’offerta, l’erede dell’esuberante Gianni Agnelli è apparso per quello che oramai è: un capitano d’industria che decide da solo”, aveva scritto Le Monde.
Nozze che, oltre a sublimare il grande sogno “panindustriale” di Marchionne – fermamente convinto che nel mondo automotive sarebbero sopravvissuti solo quattro o cinque gruppi industriali maggiori – avrebbero permesso di attenuare (se non addirittura cancellare) quella che è la più grande colpevolezza del manager italocanadese: non aver lasciato basi solide per una gamma prodotto all’altezza di sfide enormi come quelle dell’elettrificazione e della guida autonoma. Lo scotto da pagare per poter indossare un’elegante cravatta sotto al solito maglione: quella cravatta che il 1° giugno dello scorso anno sanciva l’azzeramento definitivo del debito industriale di FCA, per anni perseguito da Marchionne come l’acqua nel deserto.
“Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa fate duri una vita intera o perfino più a lungo”, suggeriva Marchionne a un gruppo di giovani laureandi, lui che sognava che Ferrari tornasse a trionfare in Formula 1 e l’auto italiana ottenesse il suo riscatto oltreoceano: “Torneremo in America, con Fiat e soprattutto con Alfa, e non ci prenderanno più in giro”. Imprese titaniche (e spesso disattese), tanto da trasformarlo in un malato cronico del lavoro, incurante persino del male che gli covava dentro. “In tutta sincerità non riesco a vedere un mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie capacità. Temo di non avere dentro di me l’energia per un altro ciclo di questa intensità”. Purtroppo, ci aveva visto giusto ancora una volta.