La privacy è come la libertà: se non gli dai valore, rischi di perderla. Già. Nonostante l’eco mediatica sollevata dall’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo sulla privacy, la Gdpr, sono ancora in tanti, troppi, a non dare valore ai propri dati personali. Ma quei dati identificano comportamenti quotidiani e permettono di profilare gli utenti digitali indirizzandone scelte e azioni. E così, come dice Noah Yuval Harari, storico, non informatico, ”La gente è felice di elargire la propria risorsa più preziosa – i dati personali – in cambio di servizi di posta gratuiti e video di gattini. Un po’ come è accaduto agli africani e agli indiani d’America che hanno venduto grandi territori in cambio di perline colorate” (21 Lezioni per il XXI secolo, 2018).

I dati sono l’oro e il petrolio dell’umanità connessa e dalla loro corretta gestione dipendono i gradi di libertà delle scelte quotidiane. E allora perché siamo pronti a darli via solo per partecipare a sonore litigate su Facebook, farci fregare via email da rapinatori digitali e tracciare da poliziotti zelanti con app pensate per i criminali? La verità è che nella gestione della propria presenza online si rivela quel pericoloso divario digitale che ancora oggi, a 30 anni dal web, riflette antiche disuguaglianze: tra chi è capace di controllare, difendere e rivendicare la tutela dei suoi dati e chi non è in grado di farlo.

Potremmo sbrigarcela dicendo che con gli smartphone always on e le app a prova di incapace abbiamo messo armi potentissime in mano ad adulti che si comportano come bambini di quattro anni che bisticciano, tifano, parteggiano, si mostrano crudeli verso gli altri, dimentichi di ogni forma di empatia. Ma non possiamo. Questa ignoranza digitale indirizzata dal mercato è il frutto di vari fattori: la diffusione su scala globale di personal media sempre più potenti, maneggevoli ed economici; un sapere comunicativo diffuso promosso da scuole e università; l’iperconnessione religiosa ai social; l’avvento della me-communication, la “comunicazione autoriferita”, come la chiama il sociologo Manuel Castells (Comunicazione e Potere, 2009, 2017). Pilotata dai signori delle piattaforme che oggi sono i signori dei dati, l’ignoranza digitale ha generato un nuovo feudalesimo digitale (Paul Mason, Il Futuro migliore, 2018), che divide il mondo in due, tra chi produce gratuitamente questi dati e chi li raccoglie e mette a profitto.

La raccolta, organizzazione e l’utilizzo dei dati sono al centro del capitalismo estrattivo delle piattaforme (David Harvey 2004, Carlo Formenti 2008, Shoshana Zuboff 2019) che, conoscendo le più intime inclinazioni e il sentiment dei sottoscrittori, sono in grado di anticiparne mosse e desideri affinché continuino a produrli. Una volta prodotti e trattati da algoritmi potenti, con le metodologie delle scienze sociali (la psicometria), diventano il carburante per le intelligenze artificiali che ci sostituiranno (già lo fanno) in compiti complessi per i quali una volta si veniva remunerati e campavano le famiglie.

La violazione dei dati realizzata da Cambridge Analytica per cui Facebook è stata multata – facendogli il solletico – rientra in questo schema: se conosco gli orientamenti politici del produttore di dati – e lo so in base ai like che ha messo – sarò in grado di cucirgli addosso un messaggio che non potrà rifiutare. Il messaggio andrà a rinforzare le sue convinzioni preesistenti e gli stenderà intorno un cordone sanitario affinché non acceda a contenuti che lo possano mettere in discussione (Quattrociocchi, Vicini, Liberi di crederci, 2018). E’ così che hanno allontanato gli elettori afroamericani dal voto, favorendo il repubblicano Trump.

Diversa è la questione di Google Street View. Ci vorrebbe una sollevazione popolare verso il gigante della Silicon Valley di fronte alle ripetute violazioni della privacy. L’ultima ad essere sanzionata dalla Federal Trade Commission (l’Antitrust americana) è stata la raccolta preorganizzata dei dati personali catturati dalle reti wi-fi degli utenti domestici con le automobili di Google Street View. Qui il tema è allora lo strapotere dei giganti del web, che finora si sono fatti le regole a modo loro disinteressandosi bellamente della privacy dei cittadini.

Adesso forse le cose cambieranno, a patto che i nostri legislatori facciano qualche convegno in meno alla Camera e si dedichino un poco di più allo studio e alla propria formazione, e che nell’eleggere un nuovo rappresentante scelgano sempre il meno compromesso con le piattaforme americane che guadagnano in Italia e pagano le tasse all’estero.

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