Il film, si usa dire, è quasi sempre peggio del libro. E proprio questa – per restar nella metafora – è stata la prima e più ovvia verità che la chilometrica trasposizione televisivo-cinematografica delle quasi 500 pagine del “Rapporto Mueller” (il ponderoso riassunto di quello che è meglio conosciuto come “Russiagate”) ha inequivocabilmente confermato martedì scorso. Consumatasi in due tempi e trasmessa in diretta da quasi tutte le reti Usa, la lunga testimonianza di Robert Mueller di fronte ad un paio di commissioni della House of Representatives (qui l’intera testimonianza ripresa dalla CNN), altro non ha offerto al pubblico, infatti, che la tediosa rappresentazione d’un anziano signore che, palesemente fuori tempo e fuori luogo in un mondo assetato di mediatico glamour, rispondeva perlopiù a monosillabi alle domande che gli venivano rivolte. Si, no, vero, falso, giusto, sbagliato, confermo, non posso rispondere, mi può ripetere la domanda? – una richiesta, quest’ultima avanzata da Mueller ben più d’una dozzina di volte nel corso delle complessive sette ore d’udienza.

La cosa era per molti aspetti prevedibile. Non più d’un paio di mesi or sono, in quella che è statala sua unica conferenza stampa negli oltre due anni di indagini (una conferenza nella quale peraltro, non erano previste domande da parte dei giornalisti), Robert Mueller l’aveva detto chiaramente: la mia testimonianza è il rapporto. L’avesse il Congresso chiamato a deporre – cosa che ardentemente sperava, quasi pregava, non avvenisse – lui altro non avrebbe fatto che ripetere quel che aveva scritto. Non una parola di più. Non una parola di meno. Dunque: lasciatemi in pace.

La maggioranza democratica della Camera non aveva, però, voluto sentir ragioni. Scritto il libro, aveva sentenziato, bisognava fare il film. E questo sulla base d’un non del tutto peregrino ragionamento. Ben pochi, tra gli oltre 300 milioni d’esseri umani che popolano gli Stati Uniti d’America, erano coloro i quali avevano avuto il tempo e la voglia d’attraversare il mezzo migliaio di pagine – un grigio ed assai piatto oceano di legalistiche argomentazioni – che componevano il libro. Sicché il film avrebbe offerto loro l’opportunità non solo di conoscere, ma anche di riesaminare con tutta la spassosa forza dei suoni e delle immagini (in tutto lo splendore del technicolor, si sarebbe detto un tempo) i contenuti del “rapporto Mueller”.

Non è stato così. È possibile, naturalmente, che qualcuno abbia, grazie alla testimonianza di Mueller, appreso cose che prima ignorava. Ma è un fatto che, come preannunciato, l’ex direttore del Fbi nulla – assolutamente nulla – ha aggiunto, in termini di contenuto, a quel che già c’era, nero su bianco, sulla pagina scritta. Ed in termini di spettacolare godibilità, al grigiore del rapporto Mueller non ha che sovrapposto l’immagine sempre depressa ed a tratti addirittura patetica di sé stesso. Ovvero: quella d’un uomo stanco e confuso, il cui unico desiderio era, palesemente, quello d’uscire al più presto dal cono di luce dei riflettori. Un autentico fiasco. Si fosse trattato davvero della versione cinematografica (o televisiva) d’un romanzo, l’autore (che, in questo caso, sarebbe peraltro stato il medesimo Mueller) avrebbe avuto tutte le ragioni di querelare per danni la casa produttrice.

Durante l’intera udienza, Mueller ha risposto alle domande dei deputati democratici scarnamente ripetendo – o, più spesso, lasciando che gli venissero ripetute, e confermando – frasi e concetti scritti nel rapporto. E si è nel contempo lasciato scivolare addosso, senza neppure la briga d’una scrollata di spalle, le accuse – tutte, o quasi, molto “trumpianamente” volgari – che i repubblicani lanciavano, non solo contro le sue indagini, ma contro la sua persona. “Non è stata una caccia alle streghe” è stata la più contundente ed estesa delle sue risposte – se risposte si possono definire le sue scheletriche frasi – al veleno che gli veniva riversato addosso.

Di una cosa si può esser certi: il prossimo febbraio, l’Accademy hollywoodiana non assegnerà a Robert Mueller l’oscar per il miglior interprete maschile. E va da sé che, nel consueto turbinio di sgrammaticati tweet e di pubbliche dichiarazioni, Donald Trump già sé gettato a capofitto sull’indiscutibile fiasco della esibizione televisiva dell’autore del rapporto. Lo ha fatto – è appena il caso di ricordarlo – da par suo. Valer a dire: sovrapponendo – in barba alla logica ed al comune senso del pudore – due elementi in contraddizione tra loro. Quello secondo cui il rapporto lo avrebbe assolto con formula piena da ogni addebito (cosa questa che Mueller è tornato a negare con tutta chiarezza oltretutto precisando che Trump potrebbe essere processato una volta fuori dalla Casa Bianca). E quella che definisce quel medesimo rapporto una “caccia alle streghe”, architettata, sulla base di un falso (“a hoax”), al solo scopo di screditare la sua vittoria elettorale.

Come finirà questa storia non è facile dire. Perché, se il film si è rivelato una soporifera bidonata, il libro resta. E nel libro – noiosamente, ma molto puntualmente scolpite nella pietra – rimangono almeno tre visibilissimi sospetti. Il primo ci dice che la Russia di Putin potrebbe essere intervenuta “a tappeto ed in modo sistematico” nelle elezioni presidenziali Usa. Il secondo, che questo intervento potrebbe avere avuto lo scopo specifico di favorire Donald Trump. Il terzo, che Donald Trump e i suoi manager di campagna, non solo non hanno respinto ma hanno con entusiasmo usato i risultati di questo intervento, cercando poi di impedire le indagini che questo intervento avevano per oggetto.

A dispetto delle sue molto enigmatiche e pilatesche conclusioni, il rapporto Mueller era e resta un’autentica collezione di quegli “high crimes e misdemeanors” necessari per l’apertura d’un processo d’impeachment. Processo che probabilmente non ci sarà – e che la testimonianza di Mueller non ha, a conti fatti, né avvicinato né allontanato – per la semplice ragione che la maggioranza dei demicratici alcun interesse ad iniziare un cammino destinato, poco importa quali siano i crimini commessi da Trump, ad andare a sbattere contro il complice muro (l’unico muro che Trump sia riuscito a costruire) della maggioranza repubblicana del Senato.

Il seguito del brutto film visto martedì nel Congresso, non uscirà, presumibilmente, che nel novembre del 2020, il giorno delle presidenziali. E quel che resta dell’America decente non ha del tutto perso la speranza che, per una volta, non siano i cattivi a vincere.

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