di Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi
Il negoziato sulla maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna rischia di bloccarsi sull’istruzione. Ma anche escludendola, il passaggio potrebbe risultare molto conveniente per le tre regioni se i fabbisogni standard non fossero adottati.
Quanto vale l’istruzione
Tra le materie su cui Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna chiedono più autonomia dallo stato centrale, la funzione che ha il rilievo finanziario maggiore è quella dell’istruzione scolastica e universitaria. Per questo, in un nostro precedente articolo avevamo ipotizzato un sistema di compartecipazioni per distribuire le risorse necessarie a decentralizzarla. Ora però pare che il vertice a Palazzo Chigi di venerdì 19 luglio abbia cancellato dal possibile accordo la regionalizzazione dell’istruzione, che avrebbe implicato contratti e stipendi su base regionali e programmi scolastici diversi. La decisione non sembra comunque ancora definitiva, visto che i governatori di Veneto e Lombardia hanno dichiarato di non voler firmare un’intesa che stralci questa materia. Tuttavia, la battaglia potrebbe essere fatta sulle risorse a disposizione delle regioni.
Facciamo un passo indietro e vediamo quali sono le funzioni regionalizzabili in base alle intese sul federalismo differenziato del 25 febbraio 2019 siglate dal presidente del Consiglio e dai presidenti delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
Oltre all’istruzione scolastica e universitaria, quelle non meramente amministrative, che implicano cioè un trasferimento di spesa, sono sviluppo sostenibile e tutela del territorio, politiche per il lavoro, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, diritto alla mobilità e sistemi di trasporto (per Emilia Romagna si escludono porti e aeroporti civili), competitività e sviluppo delle imprese, energia (non per l’Emilia Romagna), protezione civile, comunicazioni (non per l’Emilia Romagna), commercio con l’estero.
Secondo i dati predisposti dalla Ragioneria generale nel 2017 il totale della spesa da decentrare alle regioni che hanno chiesto l’autonomia è di 16,2 miliardi di euro, di cui 11,4 miliardi circa sono spesa per istruzione. Questa sarebbe la distribuzione di risorse se seguissimo il criterio della spesa storica. Quindi se viene rimossa la spesa per istruzione, la torta si ridimensionerebbe molto: 4,8 miliardi di euro.
Dai fabbisogni standard alla spesa pro capite
Ciò su cui si insiste molto, tuttavia, è l’autonomia finanziaria, ovvero lasciare alle regioni il gettito tributario necessario a finanziare le funzioni decentrate. L’articolo 5 delle intese definisce il modo in cui devono essere attribuite le risorse finanziarie. In particolare, nel caso in cui non venissero adottati i fabbisogni standard, vi è una clausola di salvaguardia secondo la quale, dopo tre anni dall’approvazione dei decreti, l’assegnazione non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale.
Quindi, se non fossero utilizzati i fabbisogni standard, come conferma anche il recente intervento della Corte dei conti: “le risorse finanziarie che lo stato dovrebbe trasferire alle regioni ad autonomia differenziata potrebbero risultare superiori a quelle attualmente spese in quei territori”.
La tabella mostra (all’ultima riga) come la media pro capite nazionale della spesa regionalizzata per tutte le funzioni richieste equivale a 976 euro pro capite. L’Emilia Romagna avrebbe una spesa di 871 euro pro capite, il Veneto di 901 e la Lombardia di 789. La differenza da colmare rispetto alla media nazionale è di 105 euro pro capite per l’Emilia Romagna, 187 per La Lombardia e 75 per il Veneto. Il totale corrisponde a 2,7 miliardi di euro. Quindi da 16,2 miliardi di spesa storica si passerebbe a 18,9 miliardi. La spesa in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna aumenterebbe del 17 per cento.
Nel caso in cui non si regionalizzi l’istruzione, la spesa media pro capite nazionale rimanente sarebbe di 316 euro pro capite e anche in questo caso le tre regioni avrebbero una spesa inferiore alla media nazionale. La Lombardia avrebbe una spesa di 228 euro pro capite, l’Emilia Romagna di 230 e il Veneto di 307. Quindi la differenza da colmare sarebbe 88 euro pro-capite per la prima e 86 euro pro-capite per la seconda. Per quanto riguarda il Veneto la cifra sarebbe più modesta. Comunque, le differenze implicano un aumento aggregato di spesa per le tre regioni del Nord di 1,3 miliardi, ovvero il 21% dell’attuale spesa storica, che passerebbe da 4,8 a 6,1 miliardi di euro.
Poiché i decreti legge collegati al regionalismo differenziato non potranno produrre nuovi oneri per il bilancio dello stato, sia nel primo caso (decentramento inclusa istruzione) che nel secondo (esclusa istruzione), l’unico modo per avere le risorse aggiuntive sarà trasferirle dalle altre regioni che, per ora, non hanno avanzato richieste di regionalismo differenziato.
Guardando questi numeri si capisce come, anche escludendo l’istruzione, il passaggio all’autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna potrebbe comunque essere molto conveniente se i fabbisogni standard non fossero applicati. Molto verosimilmente, infatti, implicherebbero una spesa pro-capite inferiore alla media nazionale.