Nove mesi di attesa e centinaia di migliaia di euro di costi aggiuntivi. L’impresa della ditta Tironi di Modena non è stata quella costruire uno dei più grandi trasformatori di energia elettrica mai realizzati in Italia, con una potenza di 300mva per 350 tonnellate di peso, ma di riuscire a consegnarlo. Una commessa da 2,5 milioni di euro, che rappresenta il 10% del fatturato annuale della società, rimasta ferma da marzo fino alla metà di luglio in un capannone in via Emilia Est, sede dell’azienda, in attesa di ottenere i permessi per il trasporto fino al porto di Marghera, per poi essere imbarcata verso la destinazione finale, in Norvegia: “Abbiamo fatto le prime richieste a settembre, muovendoci con largo anticipo”, spiega Matteo Tironi, responsabile commerciale. “Normalmente per i trasporti speciali i tempi non superano mai i 90 giorni, anche se in media l’attesa è di circa un mese”. Questo prima di due eventi che hanno messo in allarme il paese sullo stato delle infrastrutture italiane: “La stretta sui permessi è iniziata il crollo del viadotto di Annone di Brianza, poi si è accentuata con la tragedia del ponte Morandi. E così hanno portato gli enti che controllano le strade italiane a irrigidirsi sul rilascio delle autorizzazioni”, spiega Luca Innamorato della Fagioli, la ditta che si è occupata del trasporto del maxi trasformatore.
“Se prima le verifiche per il passaggio su un ponte venivano chieste solo in casi particolarmente critici, come è giusto che sia, ora è quasi scontato dover fare controlli su ogni struttura elevata”. E questi controlli, con relativi costi, spettano all’azienda di trasporti e quindi, indirettamente, ricadono su chi deve spedire un prodotto entro certi tempi: “Il nostro ingegnere, tra Modena e Mantova, ha dovuto verificare 140 strutture. Si pensa sempre e solo al superamento del fiume Po, ma ci si dimentica che per arrivarci bisogna attraversare decine di piccoli canali”, continua Tironi. E adesso, nel terrore che si possa verificare un’altra tragedia come quella di Genova, si chiede senza distinzione una verifica ogni volta che c’è una struttura rialzata: “Questo aumenta i costi ma soprattutto non permette di avere certezze sui tempi”. Un bel problema per un comparto industriale che vende all’estero più del 75% della produzione: “Se passa un messaggio del genere, i nostri concorrenti fuori dall’Italia faranno i salti di gioia sapendo di questi problemi e lungaggini”, è l’allarme lanciato da Tironi.
Anche in passato, come prevede il codice della strada, chi effettuava trasporti speciali doveva fornire tutta la documentazione relativa al mezzo utilizzato e al percorso scelto nel dettaglio. A quel punto, però, era l’ente con la competenza sul tratto di strada in questione a fare le verifiche per il rilascio dei permessi: “Ora l’onere ricade sulle aziende: cioè io chiedo a te di verificare se puoi passare su una mia struttura. E avendo anche abbassato di molto le soglie massime, non c’è più la certezza di poter passare in punti che davamo per scontati”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il crollo del Ponte Morandi: “Dopo quella tragedia c’è stato un allineamento nazionale di tutti gli enti che gestiscono delle strade in Italia”, spiega Innamorato. “Il nostro lavoro preliminare, quando riceviamo un mandato di trasporto da un’azienda, è rimasto lo stesso: studiare il percorso più adatto per far arrivare a destinazione il prodotto, compatibilmente con le infrastrutture da utilizzare”. A quel punto partono le richieste di autorizzazione per il passaggio agli enti che controllano le strade, da Autostrade ad Anas, ma soprattutto comuni e province, che hanno il controllo di gran parte della rete italiana: “A differenza di prima, quando a noi arrivava direttamente il via libera, o la comunicazione dei lavori di adeguamento ritenuti necessari, ora la domanda ci torna indietro con una richiesta di verifica su quasi tutti i ponti da attraversare”. E così iniziano le lunghe e costose operazioni di verifica sul campo, affidate a studi di ingegneria di alto livello: “Per ognuna di questa operazioni, uno strutturista con una competenza di un certo tipo deve andare sul posto di persona a fare un sopralluogo e delle prove statiche. Alla fine diventa un servizio fatto all’ente stesso da parte nostra: per tutto questo tempo cinque persone della nostra azienda se ne sono dovute occupare”.
Il problema non è la necessità di verifiche, ma la totale mancanza di distinzione tra un caso e l’altro: “È giusto fare controlli, le infrastrutture italiane hanno enormi criticità e se quei ponti sono caduti significa che un problema c’è. Ma non deve finire per essere considerata una questione burocratica, perché si tratta in realtà di un fondamentale passaggio tecnico: la responsabilità di passare su un ponte è nostra, e su quel camion, come sulle strade in generale, ci passano ogni giorno persone a cui deve essere garantita sicurezza. Questo però non giustifica la richiesta di verifiche per ogni singola struttura”. E dal punto di vista della aziende produttrici, c’è l’amarezza di dover pagare per un lavoro che spetterebbe a chi controlla le strade: “Credo che sia il proprietario del ponte a dover decidere se quella struttura è a rischio e se sono necessari degli interventi di manutenzione”, è la posizione di Tironi. “Noi ci siamo adeguati e abbiamo fatto tutte le verifiche richieste, perché non riteniamo corretto risparmiare sulla sicurezza, ma c’è il rischio che con questo sistema qualcuno cerchi delle scorciatoie”.
Una soluzione proposta dalle associazioni di trasportatori e dalle aziende che realizzano prodotti di grandi dimensioni è quella di creare dei corridoi di collegamento, individuando ad esempio le strade che possano garantire un accesso continuativo ai principali porti d’imbarco, come quello di Marghera: “Siamo d’accordo sul fare studi e verifiche, ma una volta fatti, quel percorso deve essere considerato agibile. Ora viviamo alla giornata, ogni giorno salta fuori una limitazione nuova e quello che vale oggi magari domani cambia ancora”, dice Tironi. Un danno enorme, soprattutto per imprese che producono componenti per i quali sono necessari mesi per la progettazione e la realizzazione, e che ora arrivano al punto di temere che tutto quel lavoro vada buttato: “Se per il trasformatore ci sono voluti nove mesi, in questo momento abbiamo ancora sei macchinari già collaudati e pronti per la spedizione che sono fermi nei nostri depositi, sempre in attesa di permessi e autorizzazioni. Sono unità che servono alla rete elettrica italiana, non certo un uso secondario”.