Ero a Lipari il 3 luglio. Ero alle Eolie quella settimana, stavamo a Salina. Il lunedì eravamo andati in in gita a Stromboli, a visitare l’isola e vedere la Sciara del fuoco la sera al tramonto, con tanto di cena a bordo della barca, partecipando a una delle innumerevoli gite che vengono organizzate per i turisti. Non avevamo accettato di fare la scalata perché non avevamo la nostra attrezzatura e non volevo avere problemi con i piedi nel caso di scarpe scomode, mi sarei rovinata la vacanza.
Mercoledì dunque eravamo a Lipari in solitaria, per visitare l’isola – piuttosto grande, quindi oggetto di qualcosa in più del giro turistico in barca, toccata e fuga. Stavamo facendo il tour delle granite quel giorno, ne avevamo mangiate due verso il porticciolo e ci dirigevamo a Canneto per gustarne altre due in un paio di locali che ci avevano indicato come speciali. Mentre scendevamo con lo scooter verso la spiaggia però ho visto il fungo atomico e con disarmante ingenuità ho detto a Renato che non mi sembrava tanto normale (ogni sera ci incantavamo davanti allo spettacolo delle piccole lance di fuoco che si vedevano da Santa Marina Salina o Lingua, ma questa era un’altra cosa). E in effetti arrivati in riva al mare, davanti a noi si è parato tutto lo Stromboli e la gravità e intensità di quanto stava accadendo.
Gli isolani guardavano stupiti ma non spaventati quanto noi altri. Iddu poteva però causare un’onda anomala, questo era quello che si temeva, ma loro, gli isolani, non avevano paura nemmeno di questa eventualità. Io invece avevo terrore infinito, piagnucolavo e volevo andarmene. Abbiamo ripreso lo scooter e siamo corsi via in altura, diretti al porto, lì dove il Monte Rosa ci avrebbe protetto dal rischio temuto. In men che non si dica la notizia era sulla bocca di tutti, camminavi nelle vie e sentivi parlare solo di quello, qualcuno piangeva perché aveva parenti a Ginostra e non si sapeva ancora niente, la protezione civile aspettava al porto quelli che avevano deciso di venir via da Stromboli.
Nel tardo pomeriggio siamo tornati a Salina dove subito sul molo abbiamo incrociato un conoscente del luogo che ha detto “C’è un morto”, dove le spiagge erano state chiuse per precauzione, dove quella sera non sono scesa a Lingua, in riva al mare, per la consueta cena da Alfredo, ma ho preferito rimanere in alto a Santa Marina, “al sicuro”. Il giorno dopo siamo andati a Vulcano, ma per me non era più lo stesso. Anche Vulcano dallo splendido entroterra e coste meravigliose mi teneva sulle spine con le sue fumarole. La spensieratezza dei giorni precedenti aveva lasciato il posto alla consueta ansia del mio carattere. Tuttavia facevo tutto quello che riuscivo a fare, perché l’amore che ho provato per queste isole è stato davvero infinito come infiniti sono i tramonti, i profumi, la natura, il mare e tutto quello che di più bello abbiamo trovato.
Ma non è di questo in realtà che volevo parlarvi quando ho cominciato a scrivere. Quel mercoledì, prima di Iddu, prima del tour delle granite, in scooter avevamo percorso l’isola lungo tutto il suo perimetro per visitare il maggior numero di spiagge e quindi ci eravamo imbattuti in quella di Valle Muria. Attraverso una lunga e ripida discesa un po’ da conquistare ci eravamo ritrovati in una caletta riservata, con un piccolo bar nella roccia, pochi bagnanti e qualche grande imbarcazione ferma davanti. Mentre sedevo sotto uno dei due tavoli all’ombra cercando di riprendermi dall’arsura, un signore che fumava il sigaro mi ha chiesto da dove venissimo. Dopo qualche mia risposta e qualche sua parola mi sono resa conto di trovarmi davanti a un personaggio piuttosto singolare.
Attila (Attilio) parlava di noi altri come “voi umani” e ha cominciato a raccontare come e dove viveva, invitandoci ad andarlo a trovare, nella caletta accanto, nella sua dimora, costruita da lui tra le rocce. E in effetti siamo andati a trovarlo, non senza prima aver chiesto qualche piccola informazione a un bagnante che ci era stato prima di noi e ai ragazzi del bar, perché francamente sembrava una storia incredibile, la sua. E incredibile lo è davvero. Attila vive con un cane, Attila anche lui, e vive lì, in balia degli eventi stagionali, lui che chiama amore la tempesta e che si sposta in canoa da una spiaggia a quella accanto. Ha costruito casa e arredi, officina e orto, ha tempestato i muri di versi di poeti e frasi sue, una filosofia primitiva e verace.
Ti guarda con i suoi occhi trasparenti e ti racconta mille storie, e non sai quanto sia vero, ma poco importa, perché lui che vive da eremita prepara da mangiare ai suoi ospiti se loro vogliono e se lui vuole, sta solo ma si vede che gli piace accogliere, parlare, stupire, impressionare. Possiamo pensare qualsiasi cosa su Attila, sul perché racconti quello che racconta, su di sé, sulla moglie morta, sui figli fuori dall’Italia, sul suo essere diventato nonno, sul suo passato sul filo della legalità. Andateci, poi ditemi se anche a voi ha detto qualcosa di simile o se la storia è diventata un’altra. Noi lo abbiamo salutato con il cuore pieno di emozione, con un pugno di foto scattate insieme a lui all’ingresso della sua accogliente capanna dove c’è davvero di tutto, dove sembra di tornare bambini dentro al libro di Robinson Crusoe.
Due giorni dopo abbiamo lasciato le isole Eolie. Guardinga ho scrutato lo Stromboli dal finestrino dell’aliscafo mentre gli passavamo vicino; un marinaio ha permesso solo a me di uscire fuori a fotografarlo per l’ultima volta. Con le orecchie tese origliavo il racconto di una turista dal piede fasciato, un sedile avanti al mio, con tanto dispiacere pensavo allo sfortunato Massimo Imbesi che tanto ha amato Iddu. Da quel momento non ho ancora smesso di interessarmi di Stromboli ogni giorno.