Intercettato diceva al presunto boss: "Ma chi minchia ci deve fermare più?"
Mafia e massoneria a braccetto. È il legame che viene rivelato dall’inchiesta antimafia della Dda di Palermo che all’alba di oggi ha emesso sette fermi. In manette anche un funzionario regionale. Gli indagati, a vario titolo, sono accusati di associazione mafiosa e concorso esterno in associazione mafiosa. Nel corso dell’inchiesta, tra Licata e Palermo, sono state documentate “qualificate dinamiche associative funzionali alla infiltrazione di rilevanti attività imprenditoriali in via di realizzazione nell’agrigentino – dicono gli inquirenti – e il ruolo occupato all’interno del sodalizio da due massoni che ricoprivano il ruolo di maestri venerabili di due distinte logge”. Al centro delle indagini del Ros la famiglia mafiosa di Licata (Agrigento), di cui sono stati delineati gli assetti e le gerarchie. Nell’indagine sarebbe emerso che alcuni mafiosi avrebbero ottenuto sconti sul pagamento delle spese di giustizia, processi e carcere.
Al centro delle indagini “c’è la famiglia mafiosa di Licata, al cui vertice” per gli inquirenti c’era il pregiudicato Giovanni Lauria “che presiedeva a riunioni ed incontri con gli altri associati, gestendo e pianificando tutte le relative attività ed affari illeciti, mantenendo il collegamento con esponenti di altre famiglie di cosa nostra della Sicilia Orientale, al fine di progettare la realizzazione di attività volte ad alterare le ordinarie e lecite dinamiche imprenditoriali”.
I provvedimenti della Dda hanno riguardato Giovanni Lauria, 79 anni, detto “il professore”, Vito Lauria, 49 anni, (figlio di Giovanni), Angelo Lauria, 45, Giacomo Casa, 64, Giovanni Mugnos, 53, Raimondo Semprevivo, 47, Lucio Lutri, 60 anni. L’indagine ha preso spunto dai rapporti documentati dai carabinieri tra il capomafia Salvatore Seminara (ritenuto all’epoca al vertice della famiglia di Caltagirone) e i suoi accoliti e dall’altra alcuni esponenti mafiosi licatesi capeggiati da Giovanni Lauria. Il legame, secondo gli inquirenti, doveva servire a infiltrarsi nei lavori per alla realizzazione di un importante complesso turistico alberghiero e alla demolizione di immobili abusivi nel Comune di Licata. Secondo la procura il funzionario pubblico “ha sistematicamente messo a disposizione della consorteria mafiosa la privilegiata rete di rapporti intrattenuti con altri massoni professionisti ed esponenti delle istituzioni”.
In cambio del suo aiuto alla cosca il funzionario, che in una intercettazione diceva “ma chi minchia ci deve fermare più?”, otteneva favori. L’insospettabile ruolo svolto è “sintetizzato nelle parole pronunciate proprio da Giovanni Mugnos il quale, oltre ad alludere alla protezione che la provincia mafiosa riferibile a Matteo Messina Denaro eserciterebbe in favore di Lutri chiariva che il nominato massone ha due facce… una… e due… e come se io la mattina quando mi sveglio e con una mano tocco il crocifisso e “dra banna” ho il quadro di Totò Riina e mi faccio la croce”