Anche le Mauritius hanno i loro Papers. Il Consorzio investigativo ICIJ (International Consortium of Investigative Journalists) insieme al giornale francese Le Monde hanno pubblicato 200mila documenti provenienti in maniera anonima dallo studio degli avvocati Conyers Dill & Pearman, con sede nell’isola di Mauritius, piccolo paese africano con tassazione attorno al 3%, e ribattezzati i Mauritius Leaks. Lo studio è specializzato in finanza off-shore: operazioni legali, ma non propriamente etiche. Ne è emerso un sistema per abbattere le tasse, un escamotage legale che permette di fare affari in molti paesi africani eludendo nel contempo le tasse dovute in loco.
Tutto è cominciato con una busta anonima contenente una chiavetta usb, recapitata a Will Fitzgibbon, il coordinatore per l’Africa dell’ICIJ. Su questa mole di documenti hanno lavorato 54 giornalisti di 18 paesi. E spunta subito un nome eccellente, quello della rockstar irlandese Bob Geldof che nel 1985 organizzò il Live Aid, durante la carestia in Etiopia, che raccolse oltre 200 milioni di dollari. Geldof da allora è noto per l’impegno nella lotta alla povertà in Africa, ma emerge ora che il suo fondo d’investimento, 8 Miles, creato nel 2012 a Londra, l’anno successivo ha aperto proprio tramite lo studio Conyers Dill & Pearman una società a gestione mauriziana, la Eight Africa Management (Mauritius) Limited, e da lì investe in diverse aziende africane, fra le quali ad esempio un enorme allevamento di polli in Uganda.
Negli anni, il motto di Geldof è passato da “salvare l’Africa” a “contribuire allo sviluppo economico” del continente. Cosa che ha fatto, investendo quasi 224 milioni di dollari in società di agrobusiness, sanità, educazione, ma anche immobiliari e di telecomunicazioni. “Se 8 Miles comunica volentieri le virtù ambientali e sociali delle sue partecipazioni azionarie – dal 15% al 45% in società africane – per un totale di oltre 140 milioni di dollari, se insiste sulla volontà di ‘migliorare la trasparenza, il processo decisionale e la responsabilizzazione’, il gruppo di Bob Geldof comunica meno sul fatto che opera a partire da Mauritius, piattaforma della finanza offshore” scrive Le Monde. Il portavoce di 8 Miles si è subito affrettato a dichiarare che le compagnie nelle quali il fondo investe pagano tutte le tasse nei relativi paesi, ma molte domande restano aperte.
Del resto, Geldof è in buona compagnia: per la maggior parte si tratta di imprese multinazionali, i cui nomi possono non dire molto al grande pubblico, ma rappresentano fette enormi di mercato e di interessi. Si va dalla multinazionale franco-giapponese CFAO, l’ex Compagnia francese dell’Africa Occidentale, dal 2012 entrata nel gruppo Toyota Tsusho, che opera in una quarantina di paesi africani nei settori automobilistico, farmaceutico, delle nuove tecnologie e dell’e-commerce e ha per slogan With Africa, for Africa, alla società svizzera Trafigura, colosso di trading di petrolio e materie prime con centro operativo a Ginevra e sede fiscale ad Amsterdam, terzo al mondo dopo Glencore e Vitol e già coinvolto in diversi scandali finanziari, passando per ricchi uomini d’affari ugandesi e nigeriani.
In una sezione dei documenti identificata come “non pubblicabili”, Conyers elenca otto clienti confidenziali. Fra loro, l’Industrial and Commercial Bank of China, a cui Conyers consiglia un prestito di 3 miliardi di dollari a MTN Group, la più grossa compagnia africana di telefonia mobile. Conyers dice anche di aver guidato la fusione da 65 miliardi di dollari di due compagnie del gas e meccanica, di cui non fa i nomi.
Solo nominate, in un elenco di oltre duecento compagnie, per ora senza ulteriori dettagli, compaiono anche le multinazionali Whirlpool e Total S.A., ma anche la non-profit Mayo Clinic, classificata dalla rivista Fortune fra le “100 migliori compagnie per cui lavorare”.
Perché proprio le Mauritius
Mauritius, 1,3 milioni di abitanti, ex colonia olandese, poi francese e infine inglese, ha una posizione ideale nell’Oceano Indiano, fra Africa e Asia. Era un paese povero con un’economia basata sulla canna da zucchero. Poi, all’inizio degli anni Novanta, l’allora ministro delle finanze Rama Sithanen lanciò l’idea di trasformare l’isola nella “Lussemburgo d’Africa”. A un anno dall’entrata in vigore della nuova legge, le compagnie offshore erano dieci. Due anni dopo, 2.400.
Mauritius è considerata oggi alla stregua di un paradiso fiscale, anche se l’Unione europea l’ha inserita nella lista grigia e non in quella nera. Un centro finanziario cresciuto a discapito di molti paesi in via di sviluppo, africani e non solo. Secondo ICIJ, sono 630 i miliardi di dollari stranieri di attivi stranieri depositati sull’isola.
I trattati fiscali, cuore del sistema
La vera attrattiva del sistema fiscale mauriziano sono i trattati fiscali sulla doppia non imposizione, stipulati bilateralmente con quarantacinque stati, di cui quindici subsahariani, che hanno portato molte imprese a stabilirsi a Port-Louis per sfuggire alle imposte dei propri paesi, godendo dell’esenzione dalla doppia tassazione e sfruttando invece gli enormi vantaggi fiscali di Mauritius. Gli Accordi sulla doppia non imposizione erano nati negli anni Venti del Novecento per evitare che le compagnie che effettuavano operazioni internazionali dovessero pagare due volte le tasse sulla stessa transazione. Implementati dopo la Seconda Guerra Mondiale e poi durante la decolonizzazione, presto si trasformarono in strumenti che avvantaggiavano unicamente i paesi occidentali, impoverendo invece ulteriormente i paesi in via di sviluppo, dai quali drenavano tutte le risorse.
Alcuni Stati africani, come Sudafrica, Kenya e Malawi hanno già ridiscusso le convenzioni fiscali, e le perdite che comportano, sottoscritte con Mauritius. Altri, come Lesotho, Namibia, Uganda e Senegal stanno cercando di rinegoziarle, riscontrando però non poche difficoltà dalla controparte. Il Senegal, ad esempio, stima di aver perso 257 milioni di dollari nei 17 anni in cui il trattato è rimasto in vigore: “È il più ingiusto di tutti i trattati che il Senagal ha sottoscritto, un’enorme pipeline per l’elusione delle tasse” ha dichiarato a JCIJ Magueye Boye, ispettore delle tasse senegalese. Nel frattempo, però, Mauritius sta portando avanti nuovi trattati con altri sedici paesi africani, puntando a coprire il 60% del continente.
Il commento di Oxfam
Secondo Oxfam, che sta seguendo da vicino i Mauritius Leaks, ogni 6 dollari di investimenti stranieri in Africa, un dollaro proviene da un prestito da parte di un’impresa con sede in un paradiso fiscale. Per questo, all’ultimo G7 finanziario tenutosi in Francia il 17 e 18 luglio scorsi, Oxfam e altre ong hanno proposto di instaurare su scala mondiale un tasso minimo d’imposta per le multinazionali. “I Mauritius Leaks ci forniscono un altro esempio di come le multinazionali stiano prendendo in giro il sistema per ridurre le loro imposte – ha commentato Peter Kamalingin, direttore di Oxfam Africa – E di come stiano imbrogliando i paesi più poveri del mondo, privandoli di entrate fiscali vitali per mandare i bambini a scuola o per assicurare che la gente possa vedere un dottore quando è malata. Il vero scandalo è che ciò è totalmente legale”.
Ilfattoquotidiano.it ha interpellato Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia sulla giustizia fiscale, che ha spiegato il meccanismo: “In questo nuovo scandalo emergono poche persone singole, ma molti fondi di private equity e molte corporation che sfruttano la giurisdizione delle Mauritius e i trattati fiscali per incanalare investimenti ottimizzando il carico fiscale e i profitti sui capital gain. In sintesi, è la storia di un paradiso fiscale societario, legale, usato per ottimizzare il carico fiscale.”
“Le Mauritius hanno trattati fiscali contro la doppia non tassazione – continua l’esperto -, convenzioni che però introducono limitazioni sul quadro normativo di un Paese: in Africa permettono di abbattere molte ritenute alla fonte su determinati tipi di reddito. Per intenderci, se una multinazionale vuole operare in un Paese africano, apre una sussidiaria controllata in quel Paese, che realizza profitti sui quali dovrebbe pagare le imposte definite dal Paese in questione. Cosa fa allora la multinazionale? Se aumenta i costi, sgonfia la base imponibile e paga meno tasse. Lo si fa organizzando prestiti infragruppo: dalla casa madre o da una sussidiaria finanziaria presta soldi alla sussidiaria africana, che a bilancio deve mettere come costi gli interessi che dovrà versare alla società prestante. È solo un esempio di meccanismo per diminuire la base imponibile. Poi ci sono i costi di gestione, marketing, advertising: con stratagemmi contabili una multinazionale riesce a sgonfiare la base imponibile nel paese dove produce attività, riducendo le entrate fiscali per questi Paesi e ottimizzando la propria posizione fiscale globale. Se nei Paesi dove la fiscalità è medio-alta diminuisco i profitti e mi sposto dove le aliquote sono basse o ho esenzioni, ho ottimizzato. Ecco, lo studio legale Conyers Dill & Pearman suggeriva a multinazionali o fondi di private equity come fare un investimento per guadagnarci fiscalmente”. In sostanza, conclude Maslennikov “questo scandalo sta gettando luce sul fenomeno dell’erosione della base imponibile e del trasferimento dei profitti, un fenomeno conosciuto con l’acronimo Beps, che preoccupa tantissimo l’Ocse e fra l’altro colpisce anche l’Italia, dove si stimano sei miliardi di euro di ammanco erariale annuo”.