Tutti contro Joe Biden. O meglio, tutti contro tutti. È stato soprattutto uno scontro di personalità, di battute, di ambizioni politiche quello che è esploso nel secondo dibattito democratico, organizzato da CNN a Detroit. Se nel dibattito di due giorni fa, con i primi dieci candidati, era emersa una netta divisione tra progressisti e centristi, gli altri dieci candidati hanno messo in scena ieri sera una vera e propria corsa a sminuire gli avversari, a colpirli nei punti deboli. Il risultato è, ancora una volta, un partito che appare diviso, in difficoltà a trovare “il candidato” in grado di contrastare davvero Donald Trump alle presidenziali 2020.

Diciamo subito che Joe Biden è apparso meno in difficoltà di quanto ci si potesse aspettare dopo la disastrosa performance a Miami, il giugno scorso, nel primo dibattito democratico. Lo hanno attaccato su tutto, continuamente. Kamala Harris lo ha preso di mira sulle questioni della sanità e del suprematismo bianco. Kirsten Gillibrand gli ha rimproverato antichi pregiudizi contro le donne che lavorano. Corey Booker gli ha imputato l’azione da senatore in tema di riforma della giustizia e Julian Castro ha cercato di metterlo in difficoltà sull’immigrazione. Biden ha sempre risposto sulle cose: ha fatto notare che la riforma sanitaria di Harris costerebbe troppo per la classe media; ha replicato a muso duro a Castro, spiegandogli che “il suo piano sull’immigrazione non ha nessun senso” e che bisogna rispettare la legge negli ingressi negli Stati Uniti; ha ricordato di aver avuto due mogli, entrambe lavoratrici, e di aver attivamente contribuito all’educazione dei figli. In alcuni casi, per esempio quando ha implorato Kamala Harris di andarci piano con lui – definendola una “ragazzina” – Biden ha rispolverato l’antica ironia. In diversi frangenti – affermando per esempio che la battaglia contro Donald Trump è una battaglia per “l’anima dell’America” – ha mostrato convinzione e passione.

Insomma, non c’è stato il sanguinoso omicidio politico del vecchio padre democratico, come alcuni si aspettavano. Detto questo, Biden continua a mostrare tutti i suoi limiti: non riesce a rivendicare il lavoro fatto con l’amministrazione di Barack Obama, ma nemmeno a prendere le distanze da essa; soprattutto, non riesce a scacciare una certa impressione di senilità, che emerge nella meccanicità di certe risposte (per esempio, si blocca improvvisamente quando il tempo a sua disposizione si esaurisce, comunicando incertezza e confusione), e nelle gaffe a ripetizione. Ieri sera, per esempio, ha confuso un sito Internet con un messaggio di testo, invitando i suoi sostenitori ad andare su “JOE 30330 (non era JOE, ma JOIN 30330).

Biden esce dunque dalla serata di Detroit senza eccessivi traumi, ma al tempo stesso senza particolari promesse. Lo stesso vale per l’altra candidata forte emersa in queste settimane: Kamala Harris. Su Harris, prima procuratrice legale a San Francisco, poi attorney general della California, molti avevano puntato dopo la brillante esibizione nel dibattito democratico di Miami. Le aspettative non sono state mantenute. Harris in diverse occasioni è risultata poco convincente. Non ha saputo difendere il suo passato legale in California, quando un’altra candidata, la deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, l’ha accusata di “aver incarcerato 1500 persone per violazioni sulla marijuana e aver poi riso quando le hanno chiesto se ha mai fumato marijuana”. Anche Biden ha messo a segno un buon punto contro Harris, proprio sul tema razziale che la senatrice ha più volte enfatizzato: “Quando Kamala Harris era attorney general della California – ha detto Biden – c’erano due tra le scuole più segregate del Paese, a Los Angeles e a San Francisco. Non ho mai visto Harris fare qualcosa per de-segregarle”.

La serata di Detroit alla fine è stata propizia soprattutto per due candidati. Corey Booker, senatore del New Jersey, è riuscito ad attaccare i rivali senza apparire particolarmente aggressivo. È apparso tranquillo, convincente e appassionato sul tema della riforma della giustizia, della soppressione del voto nero, ed è riuscito a mettere in difficoltà Biden quando gli ha rimproverato di invocare il suo lavoro con Obama “solo quando è politicamente conveniente”. L’altro candidato che è riuscito a mettersi in luce è stato Julian Castro. L’ex sindaco di San Antonio ha difeso con passione la de-criminalizzazione degli arrivi alla frontiera meridionale ed è riuscito a mettere alle strette Bill de Blasio sulla gestione del caso di Eric Garner, l’afro-americano soffocato dalla polizia di New York. La miglior battuta della serata l’ha comunque pronunciata Kirsten Gillibrand, la senatrice dello Stato di New York. Le hanno chiesto cosa farebbe, per prima cosa, entrando alla Casa Bianca da presidente. Ha risposto: “Pulire tutto col Clorox”.

Nell’insieme, le due serate del dibattito a Detroit hanno mostrato tutte le difficoltà del campo democratico a trovare un candidato. Barack Obama, la cui eredità nel partito nessuno sembra davvero rivendicare, aveva qualche tempo fa espresso il timore che le primarie democratiche si trasformassero in un “plotone di esecuzione circolare”, in cui tutti sparano a tutti. I timori sembrano confermati. La necessità di emergere, alla ricerca di visibilità politica e finanziamenti, porta ad attacchi sempre più puntuti e cattivi (con un’eccezione forse: Elizabeth Warren, che riesce a parlare di programmi senza per forza attaccare i rivali). Il partito appare diviso su alcune questioni chiave: sanità, immigrazione, college. L’affollamento dei candidati – oltre venti – rafforza poi un’impressione: quella di un campo democratico vociante e confuso, su cui si erge dominante la figura di Donald Trump.

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