L’espressione delle proprie potenzialità non è necessariamente legata alla risoluzione delle proprie problematicità. Siamo portati a pensare che finché non siamo in grado di risolvere i nostri problemi rimaniamo in essi intrappolati senza poterci esprimere al meglio. In realtà, sono convinto che questo sia solo un pensiero distorto che ci porta a rimanere in una situazione di stallo che, per quanto possa procurarci malessere, ci evita la fatica più grande, ossia quella del cambiamento. I nostri problemi li conosciamo, siamo con essi in intimità, ci identifichiamo in loro, fondamentalmente è comodo non operare alcuna distinzione, ci permette di stare a guardare, mentre le cose magari non girano per il verso giusto.

Cambiare significa che siamo noi ad essere diversi, non i nostri problemi e la realtà che ci circonda. Purtroppo determinate situazioni non dipendono o non sono mai dipese da noi, le subiamo, anche se – mi rendo conto – c’è chi potrebbe approfittare di quanto asserisco, deresponsabilizzandosi in merito a ciò che invece potrebbe rendere diverso: nel fare la differenza più di qualcuno potrebbe giocare a fare il furbo, anche se con buone intenzioni. Quindi fate attenzione, riflettete, soppesate.

Alcune criticità rimarranno tali per tutta la vita, non importa quanto ci si possa lavorare e disperare sopra. Prendiamo un caso estremo, ad esempio una persona che abbia subito un abuso sessuale: lo scopo di qualsiasi tipo di terapia o aiuto sensato non è certo la risoluzione di un trauma così grave e pervasivo, ma far sì che l’individuo possa continuare a vivere con un certo equilibrio nonostante l’abuso, non di certo dimenticandolo o facendo finta che non sia mai avvenuto.

Sapere il perché delle sofferenze che ci portiamo dietro è un passo importante per la costruzione di una propria solida identità; nello stesso tempo, sapere e risolvere sono su due piani distinti che possono non incontrarsi mai. Risolvere è un concetto da prendere con le molle o va sostituito con conoscere, gestire, comprendere: niente scompare o si dimentica. Un problema che può essere dimenticato (non intendo ovviamente qui la rimozione o altri meccanismi di difesa psicologici che possono instaurarsi e sono cosa diversa) probabilmente non era tale e non ha avuto influenza significativa nella nostra vita. L’essere umano ha un tremendo bisogno di dare significato alle proprie azioni: il malessere è dato da una ricerca spasmodica di dare significato a quello che ci capita e non siamo in grado di comprendere o accettare.

Esprimere le proprie potenzialità è dare significato al proprio malessere: questo trova posto dentro di noi e nel mondo e ci permette di trasformarci, diventare altro da quello che eravamo il secondo precedente perché così come il nostro corpo cambia, anche se impercettibilmente, in ogni momento, lo stesso vale per la nostra mente, ma mentre il corpo va incontro a un irreversibile deterioramento, non è detto che la mente lo segua passo passo: può avere dei tempi diversi.

L’obiettivo della vita, a mio avviso, non è la felicità, rilassiamoci, non è ricercandola che la troveremo, se non per dei brevi momenti, ma non è neanche la sofferenza, eppure quest’ultima si presenta e sembriamo conoscerla molto meglio della prima. Impariamo a farne qualcosa.

Vignetta di Pietro Vanessi

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