Nel provvedimento di fermo emesso della Dda di Reggio Calabria nei confronti di dieci persone viene ricostruito il dominio della famiglia nel comune reggino. Le minacce al sindaco, che ha denunciato: "Domani dirò dov'è sepolto qualche tuo parente da tantissimi anni". E per gli inquirenti la manifestazione della "autorevolezza" era il controllo del mercato del pane, venduto "ad un prezzo maggiorato" e nonostante fosse di "scarsa qualità"
“Giovanni, domani dirò dov’è sepolto qualche tuo parente da tantissimi anni”. È il 27 giugno quando il sindaco di Locri, Giovanni Calabrese, riceve un messaggio su Facebook da Antonio Alì il quale “intendeva fargli comprendere che le spoglie dei suoi parenti defunti erano state spostate in luoghi sconosciuti”. Per la Dda di Reggio Calabria “la minaccia ricevuta è di estrema gravità, nella misura in cui l’autore della stessa intendeva ingenerare nel sindaco Calabrese il sospetto che i suoi parenti defunti fossero stati spostati a sua insaputa in luoghi sconosciuti o il timore, laddove non fosse realmente accaduto, che ciò si potesse verificare in futuro”.
Antonio Alì non è stato arrestato, ma con l’operazione “Riscatto-Mille e una notte” il procuratore Giovanni Bombardieri, l’aggiunto Giuseppe Lombardo e i pm Giovanni Calamita e Diego Capece Minutolo hanno dimostrato come il cimitero di Locri era letteralmente in mano alla cosca Cordì attraverso la famiglia Alì. Dalla vendita dei fiori alla costruzione di cappelle passando per l’assegnazione dei posti e per la gestione dei funerali: il cimitero era cosa loro.
Anzi “casa loro”, come diceva Gianfranco Alì, uno dei dieci fermati oggi dai carabinieri e dalla Guardia di finanza, rivolgendosi al titolare di una impresa edile e ai suoi operai che erano impegnati alla realizzazione di un loculo all’interno del cimitero. “Non ti devi permettere di fare tombe a clienti miei – sono le parole di Gianfranco Alì – Il cimitero è casa mia e non casa tua. E diglielo a questi altri quattro mastri di merda”.
Titolare della ditta di onoranze funebri, Gianfranco Alì è il figlio di Giorgio, l’ex custode del cimitero sollevato dall’incarico dal responsabile dell’ufficio tecnico del Comune che, pochi giorni dopo, aveva trovato un ordigno esplosivo ad alto potenziale offensivo dinanzi alla porta d’ingresso della sua abitazione: 7 candelotti Black Thunder e un detonatore a miccia che fortunatamente non è esploso.
Assieme a Gianfranco Alì, è stato arrestato Cosimo Alì, considerato dagli inquirenti “l’anello di congiunzione” con la famiglia mafiosa dei Cordì grazie a “un solido rapporto di fiducia con Vincenzo Cordì, capo indiscusso della medesima cosca, tratto in arresto per associazione mafiosa nell’ambito del procedimento “Mandamento Jonico” e tuttora detenuto”. I carabinieri e la Guardia di finanza hanno fermato, inoltre, Vasile Iulian Albatoaei (un rumeno che si fa chiamare “Giuliano”, dipendente degli Alì), Guido Brusaferri, Domenico Cordì (di 40 anni), Domenico Cordì (di 28 anni), Antonio Cordì, Salvatore Dieni, Emmanuel Micale e Gerardo Zucco.
Sono loro, stando all’impianto accusatorio della Dda di Reggio Calabria, che a Locri tengono in ostaggio i vivi, e pure i morti. Non solo lottizzazione delle aree cimiteriali, ma anche la gestione di tutto il business che parte dal momento in cui qualcuno ha problemi di salute e si trova in ospedale. Basta ascoltare la telefonata ricevuta il 17 settembre 2017 da Giorgio Alì il quale veniva informato da una donna circa “le precarie condizioni del proprio genitore e la verosimile necessità di un servizio funebre”. Neanche cinque minuti e gli investigatori intercettano sempre Giorgio Alì che, senza nessun rispetto per l’essere umano, contattava il figlio Gianfranco e “lo sollecitava a non perdere il cliente”: “Ha detto che stanno facendo entrare il padre in sala operatoria e non sanno se ne uscirà vivo, e niente… Non perdiamocelo”.
“Dalle attività di intercettazione – scrivono i pm nel provvedimento di fermo – è emerso che gli Alì, in violazione di legge, trasportano in ambulanza anche persone già defunte, verosimilmente con la complicità del personale sanitario ospedaliero che attestava la dimissione del paziente ancora in vita”. Nell’inchiesta è emerso, inoltre, che i Cordì a Locri hanno monopolizzato il mercato del pane. “La più evidente manifestazione di autorevolezza criminale di Domenico Cordì – è scritto nel decreto di fermo – la si coglie nell’attività di distribuzione del pane in svariati esercizi commerciali di Locri”.
In sostanza, Cordì ogni mattina, in meno di due ore rivende tutto il pane “ad un prezzo maggiorato rispetto a quello di acquisto”. E questo nonostante lo stesso Cordì ammetta che sia di “scarsa qualità” non riconoscendo, inoltre, “il diritto di reso”. “Non c’è bisogno che parliamo… c’è bisogno solo che ci vedono”. È la frase pronunciata da uno dei fermati, che forse più di tutte fornisce la dimostrazione plastica di come Locri è in mano ai Cordì.
Per il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, “i fermati avevano di fatto monopolizzato la fornitura di pane, controllando così la catena della distribuzione alimentare”. Le tangenti su ogni lavoro pubblico, inoltre, fanno il paio con i reiterati attentati e minacce contro pubblici amministratori comunali e funzionari dell’ente. “In ultimo, – sottolinea Lombardo – le intimidazioni contro il sindaco Calabrese eseguite con modalità insidiose ed allusive consistite nella minaccia di fargli scomparire le spoglie dei parenti sepolti in cimitero”.
“Il sindaco di Locri – ha affermato il comandante provinciale della Guardia di finanza, Flavio Urbani – ha denunciato e con responsabilità ha scelto con chi stare”. Gli arrestati avevano “letteralmente terrorizzato e soggiogato con metodi violenti e mafiosi – spiega il procuratore Bombardieri – tantissimi commercianti e imprenditori di Locri e dintorni, imponendo il pagamento di tangenti, forniture alimentari, inquinando così il libero mercato e soffocando la libera impresa, sostituendo progressivamente una classe imprenditoriale onesta e legittimata da decenni di lavoro trasparente”.
“È proprio da una parte di questo mondo – ribadisce il procuratore – che non vuole rassegnarsi alla tirannia mafiosa è venuto un moto di ribellione sfociato in una denuncia alle forze di polizia, che l’hanno raccolta facendo emergere una situazione di disagio che definire allarmante è davvero poco”. Uno spaccato definito “inquietante” dagli inquirenti. Per il procuratore aggiunto Lombardo, la famiglia Cordì “continua a mantenere la sua operatività nonostante i numerosi arresti”. Ecco perché “il privato che denuncia deve trovare immediata risposta. C’è una coscienza civica che ci consente di dare risposte importanti anche in quel territorio. C’è una soglia oltre la quale il privato cittadino smette di credere di non avere la forza. E nella gestione cimiteriale i Cordì hanno superato il segno”.