di Donatello D’Andrea
2 agosto 1980: una calda giornata di mezza estate, almeno per quelle 85 persone che sostavano all’interno della stazione di Bologna. Alle 10.25, però, cambiò tutto. Un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata (modus operandi della strategia della tensione), esplose nella sala d’aspetto uccidendo 85 persone e provocando 200 feriti. E’ il più grave atto terroristico compiuto in Italia dopo la Seconda guerra mondiale.
Dopo ben 39 anni, in carcere ci son finiti solo gli esecutori. La magistratura individuò in Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini coloro i quali organizzarono l’attentato e lo eseguirono. Le indagini svolte però si fermarono qui, non riuscendo ad andare oltre la coltre di fumo che circondava – e circonda tuttora nonostante gli sforzi per andare oltre – la vicenda. I mandanti non vennero mai trovati, neanche dopo le sentenze definitive degli anni Duemila.
Nel corso degli anni sono maturate nuove ipotesi, nuove piste e soprattutto è stata messa in dubbio l’attuale linea ufficiale del terrorismo di matrice fascista. Infatti la linea ufficiale assunta dai giudici, quella della ritorsione fascista, è stata quella che ha portato all’arresto dei tre membri dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), i quali però hanno da sempre affermato la loro estraneità all’accaduto.
Successive indagini hanno portato alla luce nuovi elementi, come il ritrovamento del probabile interruttore della bomba all’interno della stazione e l’ipotesi dell’esplosione prematura-accidentale, che, assieme alla definitiva scoperta della composizione della bomba (non 25 kg, bensì 11 di T4 e tritolo) e alle perizie eseguite, hanno messo in serio dubbio la tenuta della linea ufficiale, comunque sempre preponderante.
In particolare è stata “rispolverata” la tesi di Francesco Cossiga, e sostenuta anche dallo storico Vladimiro Satta, sul coinvolgimento palestinese. Una tesi che potrebbe essere confermata attraverso la comparazione dell’ordigno bolognese con quello sequestrato qualche anno prima all’organizzazione di Thomas Kram, noto terrorista tedesco, imparentato con altre cellule rivoluzionarie sia arabe che occidentali.
Tale individuo si trovava a Bologna il giorno della strage e, addirittura, vi assistette come “spettatore”. I servizi tedeschi informarono quelli italiani della sua presenza in città sia prima che dopo la carneficina. Ma nulla fu fatto al riguardo. Gli indizi raccolti nei confronti dei neofascisti, secondo gli inquirenti, erano schiaccianti. Ciò, almeno per lo storico Vladimiro Satta, non significa che gli indizi raccolti furono convincenti.
In particolare l’autore accusa la magistratura di aver attribuito un’eccessiva importanza alla testimonianza di Massimo Sparti, ex membro dei Nar, a discapito di elementi importanti come la presenza di Kram a Bologna durante il periodo della strage.
Lo storico Satta, così come altri eminenti esponenti della pista palestinese, sostiene la tesi secondo cui la politica abbia volutamente sottovalutato quella pista, “imponendo” (per tramite dei servizi segreti deviati che si occupavano di depistare le indagini) alla magistratura una linea preconfezionata (quella dei neofascisti in questo caso) da servire in pasto all’opinione pubblica secondo i propri bisogni. Così facendo si creò volutamente una prassi, poi passata alla storia come “linea della replica passiva”. Tale modus operandi investì anche i giornali dell’epoca. Alcuni, dopo un iniziale interessamento alla pista palestinese, calarono il silenzio.
Questo silenzio sembrerebbe essersi interrotto dopo 39 anni: grazie alle ultime scoperte quella coltre di fumo che avvolge la vicenda potrebbe essere definitivamente diradata. Ciò dipenderà dalle istituzioni e dalla loro capacità di far luce sulla vicenda, sostituendo al tempo della memoria, che ogni anno si ripresenta, quello della verità unica, definitiva e intangibile.
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