La vicenda del carabiniere Mario Cerciello Rega, ucciso barbaramente a coltellate da parte di un giovane statunitense, complice un amico, e la correlata scena delle manette e della benda del sospettato all’interno della stazione delle Forze dell’Ordine disvelano, anche nelle pieghe delle talvolta goffe prese di posizione di parte dell’opinione pubblica, una diatriba teoretica che affonda le sue radici nelle profondità più originarie della storia del pensiero Occidentale.

E’ dall’avvento della Grecia antica che il dibattito sull’uomo e sul potere s’incentra nel tentativo di comprendere – e semmai separare – il rapporto tra violenza e diritto (physis e nomos). Sin dall’antichità la dinamica interna tra questi enti è complicata e ambigua; basti pensare che, nel Frammento 169 del poeta Pindaro, tale convivenza tra forze viene già definita un “enigma” e dunque un qualcosa di oscuro e ambiguo. E ancora: per i sofisti (nel V-VI secolo a.C.) e per Hobbes – con la sua teorizzazione del Leviatano (XVI secolo d.C.) – viene pienamente accettata e riconosciuta una sostanziale consonanza di unità e naturalità tra la violenza (come potere e vis) e la giustizia (come espressione del motto latino iustitia est suum cuique tribuere).

Al contrario, Platone (e con lui tutti coloro che possono iscriversi al gruppo definibile, secondo Leo Strauss, del “diritto naturale classico”) ha combattuto aspramente per sradicare questa congiunzione ontologica tra violenza e giustizia, sostenendo espressamente che “la legge deve regnare sugli uomini e non gli uomini sulla legge”, così affermando la radicale assenza di consonanza della dike e del nomos, negando ogni forma di accettazione tra qualsivoglia forma di violenza e lo iusdicere.

E’ dunque giustificabile, in ogni mondo possibile, legare una persona, costringerla a stare seduto e bendarlo? La risposta è evidentemente negativa. Esiste un’eccezione, un diverso mondo possibile, una realtà nella quale una pratica che la coscienza respinge d’istinto diviene invece legittima (dunque normativamente accettata o disciplinata) oppure giusta moralmente (a prescindere da un precetto artificiale – qual è la legge umana – ma empaticamente rispettosa del principio evangelico del “non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te”)?.

Quanto alla prima evenienza va data risposta negativa. Ma questo primo tema è di minore rilevanza del secondo. Infatti è ben altra cosa – e il tema ha uno spessore sociale maggiore – chiedersi se esista un mondo possibile nel quale una simile condotta sarebbe avallata “oltre-il-legale”, e dunque in ambito etico.

Le reazioni di buona parte dell’opinione pubblica di questi giorni sembrerebbero offrire una risposta positiva: non vi è stridore tra una naturale sensibilità umana, il cui principio ordinatore sta nel passo evangelico citato, e il trattamento riservato al giovane ammanettato e imbavagliato. Questo perché costui avrebbe accoltellato un “servitore dello Stato”, un carabiniere in servizio, per di più chiamato per redimere una diatriba tra venditore ed acquirente di sostanze stupefacenti. Insomma: non è tollerabile un omicidio tanto abietto e questo giustificherebbe e anzi, quasi renderebbe giusto, un comportamento tanto umanamente aggressivo come il bendaggio, simbolo dell’annullamento dell’identità.

Il rendere ciechi – cioè il bendare – sta a significare la negazione del diritto a un essere umano di essere nel mondo, vedere cosa accade, poter connettere la propria coscienza con lo stato di natura circostante, così da poter avere un’identità ed essere il centro di decisioni libere.

Sarebbe la sovranità violata a consentire tutto ciò? Oppure, al contrario, è proprio la sovranità – cioè lo Stato di diritto – che impedisce la barbarie del negare l’altrui identità? E questo nel senso che, anche a voler seguire la traccia interpretativa inaugurata dal poeta Pindaro, una qualsivoglia connessione originaria tra violenza e giustizia deve essere sempre e comunque temperata dalla forza ordinatrice del logos, della ragione, dell’essenza della sovranità; quest’ultimo come ente in grado di nullificare e farsi baricentro tra le istanze della forza repressiva e quelle della giustizia che, se non sedate dal logos, agirebbero al pari del criminale, ovvero del sentire più anomico o puramente vendicativo.

Viene dunque da dire che la condotta tenuta nei confronti del giovane americano, sospettato di partecipazione all’omicidio del giovane carabiniere, trova cittadinanza solamente nel “mondo possibile” della reazione antilegale e della realtà esterna alla sovranità dello Stato di diritto. Ciò non è, ovviamente, una degradazione della gravità dell’accoltellamento; anzi, proprio il concetto di sovranità trova la possibilità di trasformare quella forza potenziale dello Stato (dynamis) nell’indirizzare correttamente l’atto repressivo (energheia).

Poco contano, in quest’ottica, le rassicurazioni – a posteriori – del magistrato del Pubblico Ministero di Roma che ha affermato come l’interrogatorio dei giovani sia stato condotto correttamente e alla presenza dell’avvocato difensore. Una regola aurea del processo nordamericano, definita in modo “colorito” come “teoria dei frutti dell’albero avvelenato”, punisce l’atto illegittimo e tutti quelli ad esso successivi.

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