La deriva onnipotente dello psicologismo e più in generale delle scienze sociali applicate sono all’origine di vicende come quelle di Bibbiano. L’ossessione degli specialisti per la parola scienza, la pretesa di conoscenze certe, forti e solide portano alla supponenza, all’arroganza e possibilmente alla sopraffazione a fin di bene.
Ma la tecnica e relativi apparati linguistico-terminologici e le conoscenze che ne derivano vogliono sempre e implicitamente imporre la propria volontà, e gli specialisti delle scienze umane e sociali lo fanno al riparo dalla legittimazione di lauree e certificazioni affini alle scienze umane e sociali in cui ormai prevale, e assurdamente, una trasmissione di sapere d’impronta più naturalista che umanistica.
Il problema di Bibbiano è allora anche in quei processi formativi che sfornano specialisti dell’essere umano e della società, delle relazioni umane, inquadrati in dispositivi di conoscenza e ricerca che s’ispirano più volentieri al Dsm dell’American Psychiatric Association, a ossessive metodologie e dintorni, più che alla tradizione filosofica, madre di tutte queste pretese scienze. E qui sarebbe interessante sapere quanti studi di filosofia o psicologia esistenziale sono oggi prescritti per conseguire titoli che consentono poi valutazioni su comportamenti umani mai oggettivamente misurabili. Chissà se per esempio Heidegger, Husserl, Jaspers, Binswanger, Kierkegaard, Sartre, Pasolini riescono a farsi un pochino spazio tra metodi, tecniche di ricerca, analisi, progettazioni e valutazioni d’intervento che sono certamente utili se formalizzano una sostanza.
In nome della conoscenza scientifica è più facile togliere un bambino a famiglie forse inadeguate, ma che certo non possono difendersi da diagnosi specialistiche che decretano il bene o il male di una creatura in nome di un sapere certo.
Al di là delle schifezze di Bibbiano, è questo il punto che genera il possibile ripresentarsi in forme soft, meno cialtrone, in buona fede e a norma di legge di fatti del genere. Conosco molti specialisti che, lungi dall’essere ridicoli soloni o anime belle delle scienze umane e sociali, non hanno perso la loro umanità e alimentano la loro professione e ricerca dei dubbi insiti nel loro stesso vivere. Sono persone per le quali la povertà, l’ingiustizia sociale, la miseria culturale e i problemi che ne derivano non sono soltanto dati sociologici ed economici, ma questioni centrali e continue provocazioni a un pensiero che si sottrae al delirio onnipotente della parola scienza.
I contemporanei scenari culturali e socio-economici sono però ostaggio di modelli interpretativi sempre più confinati nel solipsismo tecnico-scientifico, imbrigliati nei paradigmi e negli statuti e nelle strutture del sapere umanistico che scimmiotta i metodi hard science e dove, nel desiderio conoscitivo certo, è possibile dissimulare un avido bisogno di controllo e di potere (e denaro).
Nulla a che vedere con reali contesti di vita, la cui comprensione chiede meno specialismi e saperi parcellizzati, più dubbi e coscienza. E chiedono semmai il coraggio di una denuncia indignata della penuria della qualità culturale di un sistema neoliberista avido e sballato, che rischia di trasformare la sofferenza esistenziale in uno squallido business.