Economia & Lobby

Caso Avastin-Lucentis, se il Servizio sanitario sceglie le cure meno care

Il Consiglio di Stato ha chiuso la lunga vicenda dei farmaci Avastin-Lucentis. Con due sentenze ha sancito l’interesse pubblico al risparmio di spesa se esistono valide alternative terapeutiche a cure molto costose. Ma se ne ricavano anche altri insegnamenti.

di Nerina Dirindin (Fonte: lavoce.info)

La lunga storia del caso Avastin Lucentis

Con due sentenze pubblicate a metà luglio (n. 4967 e n. 4990), il Consiglio di Stato ha posto fine a una lunga vicenda iniziata nel 2009 con una delibera della regione Emilia-Romagna che per la cura della maculopatia retinica – una malattia diffusa tra gli anziani che porta progressivamente alla cecità – consentiva l’impiego del farmaco Avastin (della Roche) in alternativa al più costoso Lucentis (della Novartis).

Della vicenda ci eravamo occupati nel 2012. Si trattava di un buon esempio di spending review: il trattamento con Lucentis costava infatti originariamente 70 volte quello con Avastin. Entrambi i farmaci erano riconosciuti dal mondo scientifico internazionale come equivalenti nella cura della maculopatia retinica, ma l’azienda farmaceutica Roche (produttrice del farmaco meno costoso) non si era mai (stranamente) curata di richiedere l’autorizzazione all’immissione in commercio per la specifica patologia, mentre Novartis (produttrice del farmaco più costoso) lo aveva fatto. E così le strutture pubbliche (salvo rare eccezioni) si sentivano obbligate a utilizzare esclusivamente il farmaco più costoso, con pesanti conseguenze per le finanze sanitarie.

Dopo dieci anni, le sentenze del Consiglio di stato confermano la posizione dell’Emilia-Romagna e aprono scenari destinati a superare logiche esclusivamente commerciali su un bene, quale è il farmaco, che è sì un prodotto dell’industria, ma è anche un bene essenziale per la collettività.

La lunga storia merita una breve sintesi. Nel 2009, al fine di garantire, “a parità di efficacia e sicurezza, una significativa riduzione della spesa farmaceutica pubblica”, la Regione Emilia Romagna autorizza i medici delle proprie strutture a prescrivere, ove lo ritenessero appropriato, il farmaco meno costoso. Novartis insorge immediatamente, impugna la delibera e chiede alla regione ingenti danni.

Il giudizio è deferito due volte alla Corte costituzionale: una prima volta su richiesta di Novartis (la Corte con sentenza n. 8/2011 dichiara che la competenza è dello stato e non del legislatore regionale), una seconda volta su richiesta della regione Emilia Romagna e la Corte (sentenza n. 151/2014) dichiara che un farmaco, per essere considerato una “valida” alternativa terapeutica deve esserlo “sotto il profilo sia medico-scientifico, sia economico” perché se costa talmente tanto da non poter essere dispensato a tutti i pazienti che ne hanno bisogno, finisce per “ledere la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito”. Una conclusione di portata storica.

Nel 2013 l’Antitrust apre un’istruttoria che termina nel febbraio 2014 con una sanzione a Roche e Novartis per complessivi 180 milioni per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza: i due gruppi si erano accordati illecitamente per ostacolare l’uso del farmaco più economico, presentandolo artificiosamente come più pericoloso.

Nel marzo 2014 il governo è costretto a intervenire con un decreto legge (dl 36/2014 convertito nella legge 79/2014) volto a favorire, qualora “l’autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale non comprenda un’indicazione terapeutica per la quale si ravvisi un motivato interesse pubblico”, l’impiego del farmaco meno oneroso attraverso il ricorso all’uso off-label (la cosiddetta Lista 648).

Le due case farmaceutiche impugnano l’inserimento nella Lista 648. Il giudizio finisce alla Corte di giustizia europea che, con l’importante sentenza del 21 novembre 2018, afferma che la normativa comunitaria non pregiudica la competenza degli Stati membri a disciplinare il consumo di farmaci salvaguardando l’equilibrio finanziario dei loro sistemi sanitari e che il Codice comunitario delinea l’uso on-label di un farmaco, ma non il suo utilizzo off-label.

Novartis e Roche impugnano pure il provvedimento dell’Antitrust. Anche questo contenzioso finisce alla Corte di giustizia europea, la quale nel 2018 dà ragione all’Antitrust: il “mercato rilevante” di un farmaco è quello che registra le scelte effettuate dagli operatori sanitari nell’interesse dei pazienti, non quello, più limitato, determinato dalla richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio da parte delle case farmaceutiche nel – pienamente legittimo – perseguimento del proprio interesse. La sentenza sancisce inoltre la possibilità di avere concorrenza tra prodotti on-label e off-label, un principio molto importante per le gare e le scelte di rimborsabilità del Ssn.

L’interesse pubblico al risparmio di spesa

La chiusura del contenzioso, o meglio di un caso di rilevanza internazionale, non può che essere guardata con soddisfazione. Per molte ragioni.

Primo. La decisione dell’Emilia-Romagna a favore del farmaco meno costoso è stata salvaguardata da un insieme di sentenze che sottolineano l’“interesse pubblico al risparmio di spesa” in presenza di valide alternative terapeutiche supportate da buone evidenze scientifiche.

Secondo. L’interesse commerciale di un’industria farmaceutica a immettere in commercio un dato prodotto non esaurisce, e non imbriglia, le conoscenze della comunità scientifica internazionale e, nel pieno rispetto della normativa europea, non può limitare il potere-dovere dei professionisti di utilizzare per la cura dei propri pazienti i farmaci riconosciuti efficaci.

Terzo. Un’alternativa terapeutica per essere considerata “valida” deve anche “essere economicamente percorribile”, perché condizioni economicamente non accettabili sono discriminatorie e limitano l’accesso alle cure. Una forte critica al comportamento dell’industria farmaceutica, interessata a sviluppare prodotti in una logica per lo più di profitto piuttosto che di salute pubblica.

Quarto. È auspicabile che la vicenda possa indurre l’industria farmaceutica a una seria riflessione sul proprio operato, in primo luogo a tutela della propria reputazione, ma anche come contributo al contrasto della insidiosa e crescente sfiducia della popolazione nei confronti della medicina e dei medicinali. L’industria ha il merito di scoprire e rendere disponibili farmaci importanti, ma va criticata e limitata quando porta in commercio prodotti pseudo-innovativi fatti pagare a carissimo prezzo.

Infine, il servizio sanitario dovrebbe far tesoro di questa esperienza: le più alte istituzioni hanno sottolineato la necessità di mettere al primo posto (anche quando sono in gioco ingenti profitti) l’interesse dei pazienti. Un caso che fa scuola per molti: per le agenzie regolatorie (Aifa), che dovrebbero avere più coraggio ed essere proattivi in analoghe situazioni; per i prescrittori, che dovrebbero rifarsi alle evidenze scientifiche nell’interesse esclusivo dei pazienti; e per i pazienti stessi, che come cittadini responsabili possono limitare la forza di un mercato troppo orientato al profitto.

Il sistema pubblico dunque, più che attivarsi – ora – a richiedere i danni, dovrebbe andare alla ricerca dei tanti casi di risparmio sui quali si è ancora troppo inerti, e non solo nel farmaco.