Lo sdegno ed il clamore suscitati dalla foto del giovane americano coinvolto nel barbaro assassinio di un uomo dello Stato, ritratto bendato durante un interrogatorio in caserma, è cresciuto in fretta su di un terreno coltivato ad ipocrisia. La deprivazione sensoriale non ha alcun fine inquisitivo, checché i cultori di b-movie polizieschi ne dicano, ma serve più prosaicamente a ridurre un individuo alla condizione di impotenza e vulnerabilità.

L’ondata di indignazione, attenuata dalla rabbia diffusa per la belluinità inusitata mostrata dai due, pare provenire da un corpo sociale con poca memoria. Chi oggi si straccia le vesti dimentica che questo è il paese della Diaz, di Cucchi, di Aldrovandi. Il paese in cui un giudice ha rinviato a giudizio appartenenti all’Arma, ad Aulla, accusandoli di pestaggi e violenze in una caserma, basandosi, tra l’altro su intercettazioni come queste: “li prendi, poi invece che portarli in caserma li porti via (…), un colpo alla nuca, nella fossa, un po’ di calce e tappi… Non ci vuol mica tanto, e li levi così”.

Ci si scandalizza per una regola del gioco scorretta solo quando questa viene inavvertitamente (?) svelata, quando diventa pietra d’inciampo sulla quale incespica la nostra coscienza ormai assuefatta, suscitando quello stesso disgusto provocato dai documentari che mostrano le torture inflitte ai polli in batteria che mangiamo: “Cambia per l’amor di Dio, che non voglio vedere”!

Pare che il carabiniere che ha diffuso la foto l’abbia pagata con l’allontanamento, destino comune a tutti coloro i quali osino togliere il velo dai segreti ipocriti che la società, direttamente o indirettamente, avalla. Non è un caso che in Italia il reato di tortura sia ben lontano dal diventare realtà.

Questo omicidio ha poi ‘svelato’ un’altra notissima verità, gettando ulteriore benzina nel falò dell’indignazione. Si è scritto che Sergio Brugiatelli, l’uomo a cui i due americani hanno rubato lo zaino, sarebbe stato un informatore. Questo titolone è stato messo a bella posta affinché il popolo benpensante venisse posseduto dal maligno interrogativo: come può un uomo dello Stato avere contatti con chi infrange la legge? Come ho avuto modo di scrivere qua, ogni Stato ha sempre ‘trattato’ con i mondi fuori legge. Dallo sbarco alleato in Sicilia, passando per gli anni di piombo e della morte di Moro. E’ prassi consolidata (già era dato saperlo dai film sulla mala degli anni settanta) attingere le informazioni da uomini che camminano nella penombra della legge, semisconosciuti ai più, ma conosciuti alle forze dell’ordine. Sono conosciuti i capi delle curve facinorose degli stadi, era conosciuto Jenny ‘la carogna’, così come lo era Massimo Carminati, gran giostraio di Mafia Capitale.

Pesci grandi e piccoli che hanno avuto contatti, scambi, protetti da una connivenza che li ha tutelati dal cadere nelle maglie della legge, se non per poco tempo, fornendo in cambio notizie utili. Uomini della terra di mezzo che vivono a cavallo tra la legge e le zone grigie dell’effrazione.

La terza ‘verità’ sconvolgente che ha scosso ciò che restava dell’equilibrio dell’attonito benpensante, è condensato nella prima pagina di un quotidiano che l’indomani dell’omicidio titolava “Narcoroma”, quasi a voler stupire l’ignaro lettore ignaro del fatto che nella capitale si può trovare facilmente la droga. Chi scrive queste cose finge di non sapere, ma san benissimo, che la cocaina è ormai un fiume che attraversa le nostre città, di notte e di giorno. Dai luoghi di lavoro ai quelli di aggregazione, passando per le sniffate in solitaria sino a quelle aziendali. La cocaina come elemento interclassista che accomuna il manager e l’operaio, il militante dei centri sociali all’appartenente alle forze di estrema destra.

Il patto sociale sul quale fondiamo il nostro quieto vivere, non è per niente quieto, intriso di verità seminascoste occultate dalla società stessa. Che sovente dimentichiamo, finché una foto rubata non ce lo ricorda fastidiosamente sbucando dai nostri tablet.

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