Era l’autostrada del jihadismo. L’autostrada dell’Isis. Il triangolo Jarablus-Suruç-Tell Abiad è stata per anni una delle principali direttrici attraverso cui migliaia di combattenti hanno fatto ingresso in Siria per infoltire le file dello Stato islamico con il beneplacito delle autorità turche. Da allora, da quando il Califfato è stato sconfitto militarmente e Raqqa è caduta, sono cambiate molte cose. Nell’aerea a est dell’Eufrate, lungo il confine tra Turchia e Kurdistan siriano, il governo di Ankara sta ammassando da giorni migliaia di soldati e mezzi blindati tra Şanlıurfa, sul proprio suolo, e Kobane. L’obiettivo, come ha dichiarato il presidente Recep Tayyip Erdogan,è quello di invadere la parte di Siria in mano alle milizie curde, le Ypg (Unità di protezione popolare): “Abbiamo diritto a eliminare le minacce alla sicurezza nazionale. Lo faremo in tempi brevi”.

Tuttavia gli Stati Uniti, che coi curdi hanno stretto un’alleanza per sconfiggere Daesh, conservano in quella zona una propria base, tra Mambij e Ain Issa, e un migliaio di militari. Il governo di Washington è contrario a un attacco turco. Il rischio, facilmente prevedibile, è quello di far precipitare il Nord-Est del Paese in una nuova, sanguinosa guerra (le Forze democratiche siriane, Sdf, guidate dalle Ypg, possono contare su circa 50mila combattenti). Proprio in questi giorni i delegati di Washington stanno trattando con il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, i punti di un accordo. Erdogan vorrebbe la creazione di una sorta di safe zone lungo i confini – compresi quelli dei territori conquistati nel 2018 con l’invasione di Afrin – profonda circa 32 chilometri, controllata unicamente dalle proprie truppe e in cui le postazioni curde dovrebbero essere smantellate. Dall’altra parte, gli Usa hanno proposto un’area di poco meno di 15 chilometri e lunga 140 e che venga monitorata da entrambi gli eserciti. Intesa o no, il Sultano sarebbe pronto a dare il via libera all’assalto, secondo fonti militari americane interpellate dal Washington Post, “entro due settimane”. Concetto di safe zone che, come è ovvio, i curdi non accettano: “La nostra regione è già sicura. E noi non abbiamo nessuna intenzione di attaccare la Turchia, siamo già impegnati nel gestire le minacce interne (cellule di Daesh, ndr)” afferma Newroz Ahmed, generale delle Ypg e membro del comando delle Sdf. “Una guerra contro la Turchia potrebbe portare alla liberazione dei combattenti Isis dalle carceri delle Ypg” è il ragionamento di Joan Garcia, ricercatore del Rojava Information Center. “In più si creerebbero le condizioni perché Daesh si riorganizzi. Sarebbe un pericolo per tutti”.

L’esercito turco, nell’imminente offensiva, può contare sull’avanzata da ovest di quelli che da quasi due anni sono gli alleati in territorio siriano, cioè le fazioni jihadiste che compongono una parte del Free Syrian Army, e che nel maggio del 2017 potevano contare su circa 35mila combattenti. Una di esse, la Sultan Murad Brigade, ha partecipato fin dall’inizio alla campagna militare turca “Ramoscello d’Ulivo”, che ha portato all’occupazione del cantone di Afrin e all’uccisione di 4-500 civili (fonte Human Rights Watch). Oltre a ricevere armi, finanziamenti e ordini dai comandanti dell’esercito regolare turco, gli uomini della Sultan Murad Brigade, come denunciato da Amnesty International, sono stati protagonisti insieme agli altri gruppi jihadisti di sequestri, torture, esecuzioni e del tentativo di imporre la sharia. “Ogni decisione viene presa in accordo coi turchi” ha dichiarato il colonnello Haytham Afisi, tra i vertici del Fsa, al Los Angeles Times.

Haitham Afisi, colonello del Free Syrian Army

Per Amnesty e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite, inoltre, i membri del gruppo jihadista hanno commesso crimini di guerra: nell’aprile del 2016, uccidendo 83 civili tra cui 30 bambini, e nel febbraio del 2017, quando hanno “massacrato decine di abitanti”. Durante l’occupazione di Afrin, infine, tra il maggio e il giugno 2018, insieme ad altre fazioni supportate dalla Turchia come Ferqa 55, Jabha al-Shamiye, Faylaq al-Sham e Ahrar al-Sharqiya, si sono macchiati di numerose violazioni di diritti umani: incarcerazioni arbitrarie, torture e sparizioni di persone.

Nella galassia di gruppi che costituiscono il Fsa (circa 37 battaglioni diversi) c’è quello salafita di Jaish-al-Islam, che prima del gennaio 2018 operava in Ghouta, a sud-est di Damasco. Lì, come mostrato da alcuni video pubblicati quattro anni fa, stipavano gli oppositori religiosi (per la maggior parte alawiti) in gabbie sparse per le strade di Douma con l’obiettivo di scoraggiare i bombardamenti di Bashar Assad sulla città. Con l’ingresso della Turchia ad Afrin, 1700 combattenti dello “Esercito dell’Islam” si sono trasferiti nelle aree controllate da Ankara insieme alle proprie famiglie. Come denunciato da Amnesty e dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite, si sarebbero macchiati di esecuzioni sommarie al pari dei gruppi Levant Front e Northern Storm Brigade, anch’essi parte del Fsa supportato dalla Turchia.

Quel che sarà dell’avanzata turca in Siria, peraltro già annunciata da Erdogan quando aveva manifestato l’intenzione di volersi spingere fino in Iraq, dipende in larga misura dalla volontà – ancora una volta – degli Stati Uniti. Alla fine di dicembre 2018, Donald Trump aveva annunciato il ritiro delle truppe americane dal suolo siriano, provocando le dimissioni istantanee del numero uno della Coalizione internazionale anti-Isis, Brett McGurk. Rinunciare alla presenza del proprio esercito in un Paese il cui destino è ancora appeso a un filo, e in cui Russia e Iran stanno giocando un ruolo primario, resta difficile da credere. Un po’ perché all’orizzonte, in casa, ci sono le elezioni presidenziali (e la partita siriana può avere un peso nella caccia al consenso popolare). E un po’ perché in questo modo gli Stati Uniti, oltre a consegnare il futuro della Siria nelle mani di Vladimir Putin e Hassan Rouhani, favorirebbero la ripresa dell’Isis. Vedendo svanire di colpo, così, gli effetti dei propri sforzi.

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