La crisi di governo si è aperta in uno scenario inaspettato: non è una crisi tra Lega e Movimento Cinque Stelle, ma tra la Lega e il premier Giuseppe Conte.
Nella giornata di ieri Luigi Di Maio e il M5S ostentavano ancora una finta serenità, facevano scrivere alle agenzie di stampa che erano al lavoro come al solito, chiedevano addirittura chiarimenti sulle note di comunicazione della Lega, perché nel pomeriggio ancora non era chiaro se indicavano la caduta del governo o meno. Erano, insomma, soltanto spettatori. Come il Pd di Nicola Zingaretti: dopo essere riuscito a trasformare il voto sulle mozioni parlamentari pro-Tav che hanno innescato la caduta del governo in una polemica interna, il segretario dem non ha molto da dire in questa fase. L’unico suo messaggio è “votate il Pd se non volete Salvini premier”.
I protagonisti della giornata di ieri e di questa crisi sono soltanto Conte e il ministro dell’Interno. Lo ha confermato il messaggio alla stampa del premier di ieri sera che è stato un attacco frontale alla propaganda salviniana. In sintesi: 1) La crisi è innescata dalla Lega per trasformare in seggi parlamentari i voti dalle europee, la mozione no-Tav presentata dal M5S non c’entra nulla 2) Il governo ha continuato a lavorare mentre Salvini ballava in spiaggia a Milano Marittima 3) La crisi si deve consumare in Parlamento, non ci saranno dimissioni del presidente del Consiglio a facilitare la vita ai leghisti 4) La politica è una cosa seria, che si fa nelle sedi istituzionali, non ai comizi estivi dei “beach tour”.
Conte non ha mai nominato i Cinque Stelle, da tempo ha smesso di essere un presidente del Consiglio espresso dalla forza di maggioranza relativa (del 2018). Si è costruito una immagine – non coerente con gli inizi, ma coerente con la sua azione recente – di tecnico super partes, immagine che ha concretizzato con il messaggio del 23 luglio sulla necessità di procedere con i lavori del Tav Torino Lione. Lì si è resa manifesta la distinzione tra Conte e M5S, che in questo momento è fondamentale per evitare che la popolarità del premier affondi con la leadership sempre più vacillante di Luigi Di Maio all’interno del Movimento.
E’ ormai chiaro, infatti, che non può essere Di Maio l’avversario di Salvini nella imminente competizione elettorale: il “capo politico” ha già perso la sfida, la sua scommessa sull’alleanza di governo con la Lega ha dimezzato i consensi del Movimento in un anno e lui si è trovato a fare il punching ball del leader leghista, diviso tra i troppi impegni politici e di governo.
Certo, il M5S può sempre ripiegare su un ritorno alle origini, affidandosi a Roberto Fico o Alessandro Di Battista, ammesso che i due abbiano un consenso interno al Movimento sufficiente (ed entrambi devono ancora dimostrare di essere leader migliori di Di Maio). Ma l’unico vero asset di cui dispone il M5S oggi è Conte.
Se c’è un’alternativa di stile e approccio al salvinismo, è soltanto quella del premier. Non si può parlare di programmi, perché “l’avvocato degli italiani” non è un leader politico, ma di sicuro ha rappresentato un modo di fare politica diverso rispetto al ministro dell’Interno. Il Pd non ha ancora elaborato un messaggio forte alternativo al salvinismo, Zingaretti ha rinunciato a spendere la sua immagine di uomo di governo (guida pur sempre la Regione Lazio) per ripiegare su un profilo funzionale soltanto alle dinamiche interne di partito, i suoi messaggi sono tutti per i vari Franceschini-Speranza-Calenda-Renzi, non per gli elettori.
Ma cosa può fare Conte? Ha due opzioni e un’opportunità. Le opzioni: diventare il leader del M5S, il nuovo capo politico, ma è poco probabile. Oppure mettersi alla guida di una lista civica o di una formazione che raccolga l’elettorato potenziale del M5S ma deluso dall’esperienza di governo e dall’alleanza con la Lega. Certo, è paradossale che sia proprio il garante del “contratto” Lega-M5S a svolgere questa funzione ma Conte è stato abile a riposizionarsi come il vero anti-Salvini nel governo.
C’è un precedente: nel 2013 la Lista Civica di Mario Monti ha preso quasi l’11 per cento. Può sembrare poco se si confronta il risultato con la popolarità del premier tecnico all’inizio del suo mandato, ma fu un risultato di tutto rispetto per il partito nato in pochi mesi e promosso da un presidente del Consiglio che aveva salvato l’Italia dalla bancarotta, ma al prezzo di provvedimenti impopolari come la riforma Fornero. Come lo stesso Monti ha ricordato più volte, quell’11 per cento ha fatto la differenza e ha impedito a Silvio Berlusconi di tornare a palazzo Chigi (il centrodestra ha sfiorato il 30 per cento, nonostante i disastri pre-2011).
Lo spazio politico c’è. I Cinque Stelle non si sono mai ripresi – e chissà se lo faranno mai – dalla batosta alle elezioni europee. Conte è l’unica carta che possono giocare. E il premier ha una grande opportunità: spetterà a lui gestire la crisi, andare in Parlamento, guidare il Paese verso le elezioni. Potrà quindi consolidare il profilo istituzionale da contrapporre alle canotte e ai bermuda salviniani. E dopo le elezioni, una lista Conte può essere il ponte necessario per costruire l’unica alleanza alternativa alla destra, cioè Pd-M5S.
Improbabile, ma non impossibile.