La Provinciale 26 sbuca a Borgo Celano, tra San Giovanni Rotondo e San Marco in Lamis. I cartelli indicano i nomi esotici scelti per i ristoranti aperti negli anni del boom dei pellegrinaggi nella terra di Padre Pio da Pietrelcina. Ci sono Il Sombrero e Lucky Day, Edera e La Pineta: chissà se in uno di questi Luigi Luciani avrebbe organizzato la festa per il primo compleanno di suo figlio se dall’altra parte della montagna, lungo la statale che spacca in due il Gargano, il 9 agosto di due anni fa non avesse incrociato la strada di Mario Luciano Romito, l’ultimo dei boss della famiglia che per anni ha dominato lo sperone d’Italia assieme ai Li Bergolis. Poi questi scoprirono che gli alleati di sempre erano confidenti degli investigatori e si erano venduti gli alleati agli sbirri che da trent’anni danno la caccia ai mafiosi della provincia di Foggia. E da allora sono state botte, come in questa terra bella e maledetta, fatta di sole e sangue, chiamano le fucilate. Spesso le esplodono a pochi centimetri dal volto per sfigurare le vittime, cancellando la vita e la memoria.
La strage del 9 agosto 2017
È accaduto anche quella mattina. La strage di San Marco in Lamis, è stata ribattezzata. Luigi se ne stava andando nei campi tra Apricena e San Severo assieme al fratello Aurelio. A fare quello che da sempre era il loro mestiere, il contadino. Non ci sono mai arrivati, perché i killer di Mario Luciano Romito – ‘guidati’ secondo gli inquirenti dal basista Giovanni Caterino, ora a processo – hanno pensato che i due fratelli fossero la sua staffetta. Si sono affacciati dai finestrini della Ford C-Max in corsa all’altezza della vecchia stazione di San Marco in Lamis e hanno fatto fuoco mentre loro cercavano di fuggire, avendo capito l’intenzione del commando. Luigi è morto nell’abitacolo del Fiorino bianco, Aurelio ha provato a mettersi in salvo correndo nei campi. È stato inseguito e acchiappato. Giustiziato senza motivo.
Oltre 200 delitti irrisolti: il reportage su FqMillenniuM
Vittime innocenti di una mafia che – come racconta in un lungo reportage FqMillenniuM in edicola da domani, 10 agosto – in tre decenni ha compiuto 300 delitti di sangue. Circa l’80 per cento è ancora irrisolto. Anche se il lavoro incessante della “Squadra-Stato”, come la chiamano investigatori e inquirenti, da due anni a questa parte sta spezzando le gambe ai clan che tengono in ostaggio la terza provincia più grande d’Italia. Quei quattro morti del 9 agosto 2017 – cadde anche il cognato di Romito, Matteo De Palma – hanno dato la sveglia alle istituzioni centrali, fino a poco prima sorde di fronte agli allarmi della “prima linea”, dalla Dda di Bari guidata da Giuseppe Volpe ai carabinieri del comandante provinciale Marco Aquilio, fino ai poliziotti, che pochi giorni prima avevano visto partire il questore Piernicola Silvis. Nei mesi precedenti aveva detto di fronte alla commissione Antimafia: “Siamo in guerra, ma non ne parla nessuno”.
L’impegno antimafia di Arcangela e Marianna
Hanno iniziato a parlarne tutti quando in una giornata di caldo infernale qualcuno è arrivato di fronte a un portone in anticorodal dorato in uno stradone periferico di San Marco in Lamis per avvisare Arcangela Petrucci e Marianna Ciavarella. “I vostri mariti non ci sono più”. Adesso nel salotto della casa di Arcangela la tapparella è abbassata per proteggersi dalla stessa afa di quel giorno. I peluche del suo bambino sono ovunque sul divano in pelle chiara, Arcangela dice che è la sua ragione di vita. Come per Marianna i due figli di 14 e 12 anni e la più piccola, nata a settembre 2017, quando papà non c’era già più. “Devono avere in eredità un futuro migliore, questo è possibile solo se ci impegniamo”, dicono con lo sguardo forte di chi ha deciso di non piegarsi, nonostante tutto. “I miei figli sono adolescenti e vedo in loro rabbia e dolore. Lottiamo per loro”, si fa forza Marianna.
“Non accada mai più”
Da mesi hanno deciso: devono raccontare, tra le mura di casa e fuori, chi erano Luigi e Aurelio. Una sponda l’hanno trovata in Libera di don Luigi Ciotti. “Abbiamo talmente tollerato tutti che alla fine, con presunzione, i mafiosi ti entrano in casa senza che tu abbia il tempo di rendertene conto. Non bisogna fare finta di nulla quando si ammazzano tra di loro perché è un segnale d’allarme – spiegano – Consapevolezza, questo ci vuole”. Oggi, sottolinea Arcangela, “non tollero più neanche che qualcuno prenda una caramella senza chiedere il permesso, anche se ne ho centinaia. È così, partendo dalle piccole cose, che siamo arrivati a non avere più Luigi e Aurelio”. Quella mattina, aggiunge Arcangela, “poteva esserci chiunque e questo non deve accadere più, nessuna altra famiglia dev’essere costretta a vivere nello sconforto”.
La mafia nel salotto di casa all’improvviso
Da qui, l’impegno nell’antimafia sociale: “Non è facile. Ma lo dobbiamo a due ragazzi normali, grandi nella loro semplicità, come ce ne sono tantissimi. Cosa avremmo dovuto fare, chiuderci in casa a piangere e disperarci? Il dolore c’è – ammette Arcangela – ma le lacrime sono per mio marito, non vado a spargerle in giro. Non vogliamo la pietà di nessuno. Noi non siamo ‘poverini’, non lo erano i nostri mariti”. Solo raccontare, questo vogliono le mogli di Luigi e Aurelio. “Perché la giustizia oggi non dev’essere solo nei tribunali, ma tra la gente: contribuire a migliorare la realtà, condividere. Nelle aule di giustizia ne condannano due, ma fuori ce ne sono quattro e gli affari continuano. Fino a due anni fa pensavamo: ‘Si uccidono tra di loro’. Poi all’improvviso la mafia te la ritrovi nel salotto. La mattina ho visto mio marito, all’ora di pranzo non c’era più”.
Sembrava un film, era tutto vero
E si ritorna al 9 agosto 2017, a quel Fiorino con i vetri spaccati dai colpi di kalashnikov e fucile calibro 12: “Quando mi hanno avvisato, continuavo a pensare a un infortunio sul lavoro. Invece quando sono arrivata lì ho visto Aurelio a terra e mio marito accasciato nel Fiorino. Mi bloccavano, qualcuno mi disse: ‘Si ricordi suo marito com’era’. Ho pensato di tutto: è uno scherzo, non sono loro, stanno girando un film”. Invece da allora sono rimasti solo progetti interrotti: la festa per il primo compleanno del figlio di Luigi da organizzare, Marianna che aspettava la pensione di Aurelio per “poterci godere un po’ di vita insieme” dopo anni passati ad attendere il tramontare del sole e il rientro dai campi per stare fianco a fianco negli ultimi scampoli del giorno.
Il senso del dovere dei fratelli Luciani
Arcangela aveva spostato Luigi nel 2011, dopo essere rientrata da Bolzano, dove insegnava. Lo descrive come un uomo pacato e con grande dignità. “Una volta, era estate, tornò dalla campagna stanchissimo. C’era una mosca che ronzava attorno al tavolo mentre cenava. Provai a ucciderla perché la smettesse di infastidirlo, lui mi disse: ‘Lasciala stare, che ti frega’. Ecco, Luigi non era in grado di far male a una mosca”. Aurelio e Marianna, invece, erano marito e moglie da 15 anni. “Era testardo e riservato, chissà cosa penserebbe oggi se ci vedesse qui a parlare – si chiede – E poi era preciso e ordinato. Posizionava le zucchine una accanto all’altra nella cassetta, non le buttava a casaccio come fanno in tanti. E nei mercati, quando andava a venderle, apprezzavano”. Per entrambi, il lavoro veniva prima di ogni altro cosa. “Il giorno del suo compleanno, il primo da sposati, ero euforica – ricorda Arcangela – Lo chiamavo ogni mezz’ora per fare gli auguri e chiedergli chi altro si fosse ricordato. Lo contattarono alla sera, anche Aurelio e suo padre. Gli chiesi come mai, poiché erano stati insieme dal mattino fino a poco prima. Mi disse: ‘Devi sapere come funziona: durante il giorno si lavora, la sera ci incontriamo o ci telefoniamo per raccontarci tutto il resto’. Il senso del dovere era nel loro dna”.
I mafiosi senza voglia di vivere
Coltivare i campi con i pomodori, le zucchine e tanto grano era stata una scelta, non un ripiego. Diplomati entrambi, Luigi aveva anche frequentato l’università, a Milano, per un anno. Due esami, passati discretamente. Poi era tornato alla terra. “Avevano tutte le possibilità per fare altro, ma hanno sentito il richiamo. Lo invidiavo per la passione e la determinazione”, spiega Arcangela. “Aurelio era fiero – rimarca Marianna – Ogni tanto mi mandava le foto dalle campagne. ‘Vedi che spettacolo’, scriveva”. Un’esistenza tranquilla, cadenzata dai ritmi della natura, più lenta d’inverno e impegnativa da aprile a settembre, in una terra divisa con chi ha scelto altre strade: “Ai mafiosi manca la voglia di vivere – dicono con la forza tranquilla di chi è nel giusto – Fanno tutto ‘sto casino per potere e denaro, ma a cosa servono se devono guardarsi le spalle?”.
Morti che camminano
In provincia di Foggia, da gennaio ad agosto 2017, i cadaveri lasciati sull’asfalto dalla guerra di mafia sono stati più di dieci. In un botta e risposta che ha finito per coinvolgere due innocenti: “Si sente spesso dire che la loro gioia più grande è quando nasce un figlio. Ma vorremmo chiedere a queste persone: come fate a provare amore per la nascita di un uomo e in pochi istanti, con una ferocia inaudita, portate via a un altro bambino la gioia di avere un papà? – si chiedono Arcangela e Marianna – Chi vi dà il diritto di decidere chi deve vivere e morire? E le loro mogli, come possono permettere che i regali per i loro figli siano sporchi di sangue di innocenti?”. Anche Luigi e Aurelio, racconta, rientravano con i regali per i figli: “Erano pomodori e zucchine, cose semplici frutto della loro fatica. I mafiosi possono scegliere da che parte stare nella società smettendo di vivere una vita di paure. Fino a quando non decideranno di cambiare fronte, saranno morti che camminano”. Loro hanno invece già scelto, giocoforza: “Raccontando chi erano Luigi e Aurelio, più e più volte, prima o poi incontreremo qualcuno che non li conosceva, ma ne parlerà con noi come se fossero stati amici. Anche così avremo vinto noi”.
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