L’ex senatore Antonio D’Alì (Forza Italia) è un “soggetto socialmente pericoloso”. Con oltre trecento pagine di motivazione il tribunale misure di Prevenzione di Trapani ha applicato nei confronti del politico trapanese – a processo per concorso esterno in associazione mafiosa – l’obbligo di dimora nella sua città natale per tre anni. Per ventiquattro anni ha seduto tra i banchi del Senato e per lui l’accusa rappresentata dal pm di Palermo Pier Angelo Padova aveva chiesto la medesima sanzione per la durata di 5 anni. Così dopo oltre otto anni di procedimenti giudiziari, per la prima volta un tribunale ha riconosciuto delle responsabilità nel suo operato. Il procedimento di Misure di Prevenzione era cominciato n seguito alla richiesta avanzata nel maggio 2017 dalla Dda di Palermo, giunta durante la campagna elettorale in cui D’Alì era candidato a sindaco di Trapani. Ma l’origine risale al processo penale, tuttora in corso, in cui il politico è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Adesso a Palermo è in corso il processo d’Appello bis, dopo che la Corte di Cassazione annullò le decisioni dei giudici di secondo grado che avevano confermato quelle di primo grado depositate nel 2013: D’Alì era stato dichiarato prescritto per i fatti precedenti al gennaio 1994, assolto per quelli successivi. Gli ermellini censurarono la sentenza riscontrando “cadute logiche” e una “cesura illogica” tra i due periodi in cui all’imputato veniva contestato il medesimo reato. “Si dubita della logicità del ragionamento della Corte palermitana – scrisse la Cassazione – nel momento in cui non prende una posizione netta sulla rilevanza al supporto elettorale fornito da Cosa nostra a D’Alì non solo nel 1994, ma anche a quello ricevuto nel 2001”.
Molte accuse riguardano il periodo in cui il politico trapanese era sottosegretario agli Interni del governo di Silvio Berlusconi (2001-2006) e nel territorio veniva percepito come un vero e proprio emissario prima del ministro Claudio Scajola e poi di Beppe Pisanu, tanto che quest’ultimo verrà ascoltato nei prossimi mesi dai giudici della corte d’Appello di Palermo che nei mesi scorsi hanno accettato la richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale. Nei prossimi mesi saranno ascoltati altri 14 testimoni, tra cui anche l’ex presidente della Regione Siciliana, Totò Cuffaro. L’obbiettivo è ricostruire il presunto tentativo della mafia trapanese di far fallire la Calcestruzzi Ericina (prima di proprietà del boss Vincenzo Virga e poi confiscata dallo Stato), in cui il politico – secondo la procura generale – avrebbe garantito la “messa a disposizione della associazione mafiosa del ruolo istituzionale di senatore e di sottosegretario di Stato”.
Tra le molte incertezze è stata però riconosciuta la compravendita fittizia dei terreni che a famiglia D’Alì possedeva in contrada Zangara (Castelvetrano), tanto che i giudici scrissero che “è stato provato nel presente procedimento – scrissero i giudici di Appello nel 2016 che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”. In pratica Messina Denaro voleva donare a Riina un terreno in contrada Zangara, di proprietà della famiglia D’Alì. L’episodio per alcuni anni restò chiuso nel cassetto, nonostante alla fine degli anni novanta fosse emerso nell’ambito di un processo in corso a Trapani per calunnia contro l’allora dirigente di Rifondazione comunista Francesco Forgione, durante l’audizione di Geraci che nel frattempo era divenuto un collaboratore di giustizia. L’informazione venne inoltrata ai colleghi palermitani che però aprirono un procedimento contro ignoti, non riuscendo a identificare con certezza chi fosse l’Antonio D’Alì di cui parlava il collaboratore.