“Ho parlato con mio marito solo pochi minuti, mi ha detto che è stato bendato e trasferito in un luogo sconosciuto, non sa neanche lui dove sia stato in questi ultimi dieci giorni. Gli hanno fatto delle domande e mi ha detto che probabilmente vogliono rivedere il suo caso, ma non sappiamo se in maniera positiva o negativa”. Vida Mehrannia è la moglie del ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, condannato a morte in Iran nel 2016, recluso nel carcere di Evin e di cui non si avevano notizie da circa 10 giorni. Il 29 luglio scorso, alcuni agenti iraniani sono entrati nella sua cella, lo hanno bendato e trasferito dalla prigione, nota anche come “università di Evin” per l’alto numero di intellettuali e ricercatori incarcerati, in un luogo non identificato. Ahmadreza ha potuto comunicare solo con sua madre, che vive in Iran, dopodiché nessuno aveva più avuto notizie circa la sua sorte. Solo nella notte tra il 7 e l’8 agosto è stato ricondotto nella sua cella e ha potuto chiamare solo per pochissimi minuti i suoi familiari.
Ahmadreza é un medico di 47 anni, si è formato presso un’università militare iraniana in medicina delle catastrofi, una disciplina che studia anche come reagiscono gli ospedali a disastri naturali e umani come attacchi terroristici di tipo Cbrn (armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari). Era proprio questo il tema di ricerca di Djalali fra il 2012 e il 2015, quando lavorava come ricercatore al Center for Research and Education in Emergency and Disaster Medicine, dell’Università del Piemonte Orientale. Come ha raccontato Vida, che al momento si trova in Svezia, a Ilfattoquotidano.it, suo marito ha la doppia citadinanza iraniana e svedese. Proprio per il suo lavoro di ricerca era solito recarsi in Iran come relatore in convegni e congressi sui temi della sicurezza.
Nel 2016, però, l’arresto e la condanna a morte con l’accusa di spionaggio. È lo stesso Ahmadreza, in una lettera inviata ai suoi colleghi, a tentare di spiegare le motivazioni del suo arresto: “Durante un viaggio in Iran nel 2014 – ha raccontato -, due persone dell’esercito e dei servizi segreti mi chiesero di identificare e raccogliere dati e informazioni, di fare spionaggio nei paesi europei riguardo alle loro infrastrutture critiche, capacità anti-terroristiche, piani operativi sensibili. La mia risposta fu no”. Questo rifiuto ha destato sospetto nelle autorità iraniane che lo hanno condannato nel Dicembre del 2017.
Vida ci racconta che, come riportato da Ahmadreza, furono proprio due rappresentanti delle autorità iraniane a contattare suo marito chiedendogli di spiare per il suo Paese. Dopo il rifiuto, l’accusa di essere una spia. Una tesi che le autorità, secondo quanto riporta la donna, hanno cercato di far confessare anche al ricercatore, forzandolo a firmare una dichiarazione in cui rendesse noto il suo coinvolgimento con Israele e confermasse di essere una spia per conto di un “governo ostile”. Vida ci spiega, inoltre, che suo marito è stato costretto a rilasciare una falsa confessione alla tv di Stato iraniana, ammettendo di aver spiato il programma nucleare per conto di una nazione europea in cambio di soldi e della residenza in Svezia: “Ma questo è falso”. Quella confessione in tv, sostiene, è frutto di pressioni, torture, maltrattamenti e minacce di morte rivolte anche alla sua famiglia in Iran e ai suoi due figli che vivono in Svezia.
Suo marito è anche stato costretto ad affermare, dice, di aver incontrato almeno 50 volte membri dell’intelligence stranieri e di essere stato pagato 2.000 euro a incontro, ma “anche questo è falso perché basta vedere il nostro tenore di vita per capire che non abbiamo mai preso soldi da nessuno”. Sarebbero inoltre emerse anche alcune relazioni tra il ricercatore e Masoud Ali Mohammadi e Majid Shariari, i due scienziati nucleari iraniani assassinati nel 2010. Sua moglie in questi dieci giorni di attesa ha avuto il timore che lo avessero sottoposto a un’altra confessione ‘forzata’ al fine di accelerare i tempi per la sua esecuzione.
Anche le sue condizioni di salute preoccupano molto. Dal suo arresto, il 26 aprile 2016, ha perso 24 chili e ora ne pesa 51. Il medico che lo ha visitato in carcere all’inizio del 2019 ha detto che deve essere visitato urgentemente da medici specializzati in ematologia e oncologia in un ospedale fuori dal carcere. Le autorità, invece, non lo hanno portato in alcun ospedale.
Il mondo accademico e le organizzazioni per i diritti umani continuano a mobilitarsi e a inviare appelli alle autorità iraniane chiedendo l’annullamento della condanna a morte di Djalali e reclamando le cure mediche di cui ha assoluto bisogno. Lo scorso dicembre, 121 Premi Nobel hanno indirizzato alla Guida Suprema dell’Iran, Ali Khamenei, una lettera chiedendo il rilascio del ricercatore iraniano.
Sua moglie ha fatto sentire la propria voce fin dentro il Parlamento italiano. Ha lanciato un appello dal nostro Paese, dove il ricercatore ha lavorato per diversi anni, ed è stata ricevuta alla Camera dei Deputati, ospite del presidente, Roberto Fico, lo scorso giugno: “Sono qui per chiedere ai parlamentari e all’Italia di compiere tutti gli sforzi diplomatici possibili – ha detto in quell’occasione – Siamo spaventati, Ahmadreza ha molti problemi di salute, deve uscire il prima possibile. Ogni giorno che passa pensiamo che potrebbe essere l’ultimo, i miei figli mi chiedono cosa sarà di lui e io non so cosa rispondere”.