E se la manipolazione delle informazioni fosse diventato nuovo terreno di scontro fra nazioni? Se la narrazione dei fatti fosse pilotata ad arte per far vacillare governi, far muovere lo spread e tenere sotto scacco uno Stato o incidere in maniera sostanziale sul sistema delle imprese condizionando crescita e occupazione? Sono i dubbi su cui tenta di far luce Giuseppe Gagliano nel suo recente libro sullo stato dell’arte della “Guerra economica, cognitiva, dell’informazione”, edizioni goWare.
In 310 pagine Gagliano, presidente del Centro Studi Strategici Carlo de Cristoforis (Cestudec), entra nel vivo del dibattito sulla guerra economico finanziaria concentrandosi sul ruolo dell‘intelligence economica e dell’informazione come strumento strategico non solo per le aziende ma anche per lo Stato nell’interesse di cittadini. Lo fa attraverso una serie di saggi firmati da Sara Bruszkiewicz, Sara Cutrona, Esther Forlenza, Massimo Franchi, Laris Gaiser, Carlo Jean, Michela Mercuri, Rebecca Mieli, Arduino Paniccia e Domenico Vecchioni. Tutti esperti, a diversi livelli, di strategie militari, geopolitica, scienze diplomatiche, sicurezza internazionale. Attraverso i loro scritti, viene delineata una guerra economica e dell’informazione più diffusa di quanto non si immagini. “Il progresso tecnologico e la rapida diffusione delle piattaforme online, nonché la competizione economica fra Stati sempre più pressante – specialmente dopo la caduta del Muro di Berlino – hanno spostato l’attenzione degli statisti su una serie di minacce e conflitti che non si manifestano più a livello fisico con uno scontro fra apparati militari – si legge nel testo – ma hanno origine nella dimensione più volatile e immateriale delle informazioni, spesso veicolate attraverso i nuovi mezzi di comunicazione“. Partendo da questa considerazione di base, gli autori reinterpretano modelli contemporanei e mettono in discussione strutture sociali.
Qualche esempio? Le multinazionali che sono “molto più nazionali di quello che sembrerebbe a prima vista”, sostiene il libro. Oppure i think tank, ritenuti strumenti strategici in uno scenario in cui la guerra dell’informazione “è diventata un fattore decisivo” con l’avvento di Internet. O ancora le Ong come Greenpeace che, lungi dall’essere solo una struttura che si muove per scopi umanitari, è descritta a tutti gli effetti come un’impresa. “Se da un lato questa (Greenpeace, ndr) si autorappresenta nel mondo come una bandiera in difesa delle categorie deboli, dell’ambiente e del mondo animale, in realtà Greenpeace opera con successo proprio perché è diventata un’enorme multinazionale, con un reddito annuo di 345 milioni”, si legge nel libro dove si passano in rassegna episodi di conflitto d’interessi della Ong.
Esempi concreti, insomma, che servono a portare progressivamente all’attenzione del lettore l’importanza dell’intelligence economica e dell’informazione, il cui ruolo è già chiaro da tempo ai massimi livelli istituzionali dello Stato. “Dal punto di vista politico Francesco Cossiga già nel 1989 aveva chiaramente compreso il ruolo della competizione economica e di come questa avrebbe in parte sostituito quella militare determinando necessariamente modifiche rilevanti nella organizzazione dei servizi di sicurezza”, si legge nell’introduzione di Gagliano. Oggi, “l’intelligence economica è uno strumento della guerra economica in atto nello scenario multipolare”, si legge nel testo. Il motivo? L’intelligence economica è “il fiore all’occhiello delle politiche della guerra economica ed è su questo terreno che si rende maggiormente necessaria la collaborazione fra Stato e imprese – si legge nel libro -. E’ un elemento chiave per le aziende e gli Stati giacché i mercati finanziari rappresentano il cervello di tutto il sistema economico: se falliscono non solo i profitti del settore saranno inferiori, ma le prestazioni economiche dell’intero sistema economico di un Paese potrebbero essere gravemente compromesse”. Un pensiero assai lontano da quello di chi ritiene invece che lo Stato non possa intervenire in vicende di aziende private le cui sorti vengono decise esclusivamente dal mercato.
Senza contare che viviamo in un mondo in cui la tecnologia fa evolvere velocemente lo scenario complessivo. “La società dell’informazione ha cambiato il quadro operativo della guerra economica. Il potenziale offensivo dell’aggressore viene di certo ampliato dalle tecnologie dell’informazione – sostiene il testo -. Il soft power statunitense agisce chiaramente in questo modo, nascondendo un’arma strategica dietro Ong e strumenti di influenza politica nati per convincere la popolazione mondiale che esiste un attore malevolo, ed evitare che questa venga attratta da qualsiasi altra sfera di influenza. In questo modo la dipendenza degli alleati statunitensi nei confronti di Washington è sempre più consolidata – specialmente quella dei paesi in via di sviluppo che hanno bisogno degli aiuti americani per sopravvivere”. Meno per il Vecchio Continente che da tempo ha iniziato ad affilare le armi per competere. Soprattutto in Francia dove l’École de guerre économique di Parigi ha mosso i primi passi nel 1997 grazie al contributo sostanziale di “Christian Harbulot, primo vero stratega della guerra economica”, si legge nel libro.
Impossibile chiaramente scrivere il finale della guerra dell’intelligence economica in un mondo che, dopo la caduta del Muro di Berlino, ha riscoperto più di due superpotenze in lotta per la supremazia globale. Di certo il libro curato da Gagliano registra l’esigenza di utilizzare l’intelligence economico-finanziaria “come strumento difensivo e assieme offensivo volto a consolidare – o a conseguire – la sovranità economica senza la quale la libertà è solo un’illusione”.