Mi sono accorto di essere pieno di debiti. Anzitutto quello con mio padre, partigiano, operaio in una ormai scomparsa fabbrica di mattoni, sindacalista di base, morto d’infarto perché con un cuore troppo umano. Sono indebitato con mia madre contadina schietta che ha lavorato fino all’ultimo giorno della sua vita. Sopravvissuta per vent’anni a suo marito ha voluto assicurarsi per tempo di avere la propria tomba posta giusto sotto quella del suo compagno di vita. Sono in debito con mia sorella che cura e accompagna i miei occasionali rientri da altri continenti in cui lei mai metterà il piede. Tutto è in ordine, pronto e accurato nei dettagli delle mie brevi permanenze casalinghe. Sono in debito con la Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro. La Repubblica che si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che potrebbero impedire il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica del paese nel suo esercizio democratico. In debito sono anche col sindacato che ha lasciato intravvedere, per un breve e prezioso tempo, che un altro mondo era possibile. I cortei e gli scioperi e la solidarietà di classe non ancora rese mercanzia da vendere ai rigattieri d’occasione.
Tornando dopo tre anni mi sono accorto, come non mai prima, di essere in debito con le campane che, specie nelle vallate, risuonano e ritmano il tempo che non è solo denaro ma relazione cultuale col mistero della terra e delle sue stagioni. Sono in debito con le generazioni che mi hanno preceduto e hanno scavato le terrazze sulle colline e inventato sentieri che, per buona parte abbandonati dai passi, si sono cancellati come non fossero mai stati percorsi. Andando poi a san Gimignano delle Torri dissimili ho percepito di essere in debito con coloro che le hanno costruite e con esse le strade che attraversano le colline toscane, le gallerie dell’autostrada e i segnali che annunciano una curva pericolosa, un dosso o semplicemente una frana poco lontano.

Indebitato coi treni che mi hanno permesso di viaggiare lontano, dalle macchine e financo dagli aerei che consentono di arrivare lontano senza troppo prepararsi alle novità dell’altro mondo. Mi sono indebitato con la sabbia che mi ricorda la vulnerabile fragilità dell’esistenza, e dell’ospedale dove la mia vita è stata persa e poi ritrovata. Sono in debito con i prigionieri che mi hanno insegnato la libertà. Sono in debito con le parti di Africa che hanno combinato che sia ciò che sono. Per la precarietà assunta e condivisa nei figli che arrivano e crescono senza sapere come. Per la diversa maniera di interpretare la vita e per i ritmi del corpo dove si danza persino la morte. Per l’Argentina che mi ha lasciato il sapore della nostalgia dei sentimenti di cui si nutre ed è nutrita. Sono in debito con gli amici e le amiche di questo transito che si chiama vita e coi migranti che in tutti questi anni mi hanno fatto ricordare la mia e nostra identità straniera e pellegrina.

Sono in debito coi frutti che non ho mai coltivato, col pane che mai ho preparato con le mie mani e il cui sapore si mescola con l’umiltà del lavoro quotidiano. Sono in debito col mare che da lontano appare diverso, apre l’orizzonte e fa immaginare isole del tesoro, pirati e capitani solitari che ogni volta tornano cambiati dal viaggio. Ho un debito con i racconti che hanno popolato l’immaginario che poi trovo, quasi senza differenza, nella vita reale, ancora più straordinaria di una fiaba.
Ho un debito con il Santo Cristo di Sestri Levante che ha un volto di legno sofferto. La croce è stata bruciata da una parte e lui, il crocifisso che ha, secondo la tradizione, cercato di salvare i piedi dalle fiamme. Lo portano sul mare quando ancora c’erano i pescatori che le tempeste a volte offrivano al mare come sacrificio propiziatorio. Adesso è puro folclore estivo per i turisti che ancora si attivano a scattare foto. La maggior parte del tempo è solo e medita tra la baia del silenzio e l’altra baia chiamata delle favole. Sono in debito con l’avventura della vita che non finisce di stupire e sono in debito coi poveri che hanno destabilizzato la mia maniera di “sguardare” il mondo. Sono in debito con le parole che hanno rincorso il pensiero e mi insegnano che ogni rivoluzione comincia proprio da loro.

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