L’ultimo comunicato è arrivato ieri: l’estate del 2019, secondo Coldiretti, è tra le più calde mai registrate dal 1800. Da tempo l’associazione che rappresenta il settore agricolo italiano (zootecnia inclusa) lancia giusti allarmi sulle conseguenze del cambiamento climatico nel nostro paese e in particolare sull’agricoltura. Dagli eventi estremi alla siccità, dai nuovi parassiti alla progressiva tropicalizzazione dell’Italia. Non solo. Coldiretti proprio in luglio ha fatto una stima dei danni causati dal cambiamento climatico negli ultimi dieci anni. I suoi allarmi, però, sono rimasti abbastanza inascoltati, soprattutto dai mezzi di comunicazione, pur essendo invece un vero e sacrosanto grido di allarme. Resta purtroppo ancora la convinzione che ciò che arriva nel nostro piatto non sia frutto di una produzione che richiede un contesto ambientale di un certo tipo, insieme alla completa ignoranza sul fatto che i cambiamenti climatici sono destinati, specie senza interventi, a ridurre quantità e qualità di ciò che mangiamo, causando un sicuro aumento dei prezzi.
Non solo. Coldiretti ha anche invitato gli italiani a consumare frutta e verdura italiana. Un invito anche questo corretto, perché ci sono migliaia di aziende purtroppo piegate da un lato dai bassissimi prezzi che impone loro la grande distribuzione, dall’altra appunto dagli eventi climatici avversi che portano a buttare parte dei raccolti e contro cui le ormai diffuse forme di assicurazione non bastano. Comprare frutta italiana significa dunque aiutare concretamente i nostri agricoltori.
E tuttavia c’è un “ma” che purtroppo va segnalato, proprio nella politica e nella comunicazione di Coldiretti e che dipende dal fatto che rappresenta sia il settore agricolo che quello zootecnico. Non a caso lo stesso presidente nazionale, Ettore Prandini, ha un’azienda zootecnica ed è vicepresidente dell’Associazione italiana allevatori. Secondo un recentissimo rapporto dell’Ipcc (il massimo organo scientifico Onu sul cambiamento climatico) su agricoltura, sfruttamento del suolo e cambiamento climatico il 25-30 per cento delle emissioni di gas serra sono dovute alla filiera di produzione alimentare, ma la maggior parte deriva dagli allevamenti bovini, che producono una elevata quantità di metano.
Il rapporto indica chiaramente che, pur nel rispetto delle diverse culture e dei fabbisogni delle diverse popolazioni, una drastica riduzione di carne e latticini e l’adozione di diete a base prevalentemente vegetale rappresenta una importante opportunità di adattamento al clima ma anche di mitigazione dello stesso, con conseguenze fondamentali sulla salute e sulla riduzione delle emissioni. A differenza di altre misure, inoltre, è qualcosa che si potrebbe attuare rapidamente.
Ora, è evidente che il rapporto, come hanno spiegato alcuni esperti, puntava il dito soprattutto contro alcuni paesi, come gli Stati Uniti, che consumano carne in quantità insostenibile. Eppure l’invito a dimezzare la carne resta globale, dunque vale anche per noi. Il problema di un’associazione come Coldiretti, dunque, è strutturale, perché rappresenta sia settori a bassa emissione di gas serra sia settori ad alta emissione di gas serra: esattamente quelli che, dunque, in maniera lineare contribuiscono a peggiorare quegli eventi estremi e drammatici che poi causano danni alle coltivazioni, ma anche agli stessi allevamenti: ormai il tema della sofferenza animale nelle ondate di caldo è manifesta, così come l’abbassamento della produzione di latte a causa appunto della temperatura.
L’obiezione immediata è sempre la stessa: ci sono centinaia di migliaia di persone che lavorano nella filiera carne e non si può mandare in crisi un settore e ci sono comunque riforme che possono rendere il settore più sostenibile. Vero: se riducessimo gli allevamenti intensivi e andassimo verso quelli più sostenibili la situazione, anche degli animali, migliorerebbe, ma comunque questo produrrebbe una diminuzione della produzione, che sarebbe più di qualità, e dunque richiederebbe comunque un minore consumo. Ci sono poi ricerche scientifiche che stanno cercando di capire come ridurre le emissioni di metano prodotte dai bovini e persino come selezionare geneticamente bovini che ne producono di meno. Ma la strada maestra è soprattutto quella di cambiare abitudini alimentari, arrivando finalmente a comprendere che tutto ciò che si mette nel piatto, così come ciò che si spreca, responsabile anch’esso delle emissioni, danneggia o preserva il pianeta e dunque noi stessi. Questo messaggio andrebbe divulgato, e lo dovrebbe fare la stessa Coldiretti se non si trovasse in evidente conflitto di interessi.
Ripeto, esiste il problema delle persone che lavorano nel settore, ma lo stesso varrebbe allora per quelli che lavorano per produrre energia da fonti fossili. Dobbiamo difendere la produzione di queste fonti nonostante devastino la nostra salute e minaccino la nostra stessa esistenza oppure sperare che ci sia una riconversione anche del mercato del lavoro che favorisce le professioni a minor impatto ambientale? E cosa se ne faranno anche gli allevatori di un paese con temperature sempre più elevate, grandini, alluvioni, tornadi sempre più frequenti, desertificazione progressivi e crisi idrica? Non ha più senso provare a salvarci da un futuro inquietante facendo tutto ciò che è in nostro potere di fare, specie ciò per cui, in fondo, serve un minimo sforzo?