Uno degli ultimi terreni di scontro tra Lega e Movimento 5 stelle è stato quello delle trivelle: una guerra nella quale Matteo Salvini ha duramente attaccato la ‘politica dei no’, arrivando a sostenere, in una recente intervista al Corriere, che se il ministro dell’Ambiente Sergio Costa non avesse prorogato “le concessioni per la ricerca e l’estrazione del petrolio” sarebbero andati in fumo “migliaia di posti di lavoro”. Premettendo che dal Ministero dell’Ambiente ricordano che la competenza nel rilascio di permessi spetta non al dicastero di Costa, ma al Mise, è proprio al Ministero dello Sviluppo economico che ilfattoquotidiano.it ha chiesto i numeri, quelli veri, sui lavoratori impiegati nel settore e, in particolare, su quelli interessati dalla sospensione della ricerca di idrocarburi di 18 mesi, che potrà durare fino a due anni a decorrere dal 12 febbraio 2019, in attesa dell’adozione di un Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai). La verità è che l’andamento del settore e i conseguenti livelli occupazionali non dipendono dalla sospensione che, tra l’altro, non riguarda le estrazioni di idrocarburi, ma solo le attività di ricerca. E i dati il Mise li ha forniti, solo che non coincidono con la realtà raccontata da Salvini: gli effetti diretti dello stop potranno coinvolgere da un minimo di 650 a un massimo di 870 lavoratori all’anno.

GLI EFFETTI INDIRETTI DELLA SOSPENSIONE
Le stime occupazionali connesse alle concessioni attive (che dunque non risentono della moratoria), considerando gli impiegati diretti e indiretti, si attestano per il Mise “intorno alle 10mila unità lavorative all’anno (Ula)”, che rappresentano “la capacità di assorbimento occupazionale imputabile all’attività rispetto agli investimenti nel settore e non il numero di lavoratori”. In termini di effetti indiretti della sospensione “è difficile – scrive il ministero – stimare come effetto solo della moratoria”, i cambi nei piani di investimento o le uscite dal settore da parte di società, trattandosi di “spostamenti strutturali di localizzazione degli investimenti” che di solito seguono altri fattori, come l’andamento del prezzo o le condizioni geopolitiche. A sentire il Mise, tutto il settore “non è certamente in crescita ma è ormai consolidato, se non in contrazione, per una tendenza presente non solo in Italia”. La norma sul Pitesai, poi, non incide direttamente sulle concessioni di coltivazioni “né come nuovi conferimenti né come proroghe, procedimenti che vanno avanti anche in attesa del Piano”. Gli effetti diretti si possono, invece, calcolare per chi lavora alla ricerca.

I LAVORATORI IMPIEGATI NEI PERMESSI DI RICERCA
Al 31 gennaio 2019 i permessi di ricerca vigenti in terraferma erano 46 (di cui 19 già sospesi per richiesta dell’operatore) e 26 in mare (12 già sospesi per richiesta dell’operatore). Già prima della moratoria, dunque, erano stati sospesi 31 permessi “e, pertanto – spiega il Mise – gli investimenti ad essi associati non vanno a influire sul calcolo delle unità lavorative impattate”. Rimangono 41 permessi esistenti, ai quali si aggiungono 6 permessi nuovi (2 in mare e 4 in terraferma). Considerando solo i permessi di ricerca sospesi con l’introduzione della moratoria (al netto di quelli che risultavano già sospesi) e stimando che potenzialmente sono conferiti tre nuovi permessi ogni anno “si associa – scrivono i tecnici del Mise – agli investimenti ascrivibili in questa categoria, un valore di 1.100 unità lavorative all’anno, considerando quelle dirette e indirette”. I tecnici del ministero ipotizzano anche uno scenario estremo, considerando come immediatamente rilasciabili tutti i permessi richiesti (ossia le istanze pendenti). Il risultato cambierebbe ma non in modo sostanziale, in quanto si stimerebbe un valore pari a circa 1.300 unità all’anno. “Si ricorda, infatti – spiega il Mise – che i permessi potenziali offrono un contributo marginale in quanto la maggior parte dei costi sono affrontati durante la fase di perforazione, che avviene in media dal terzo anno”. Ma c’è di più. Al netto delle istanze di sospensione che comunque erano già state presentate dalle società petrolifere, come detto, le unità lavorative coinvolte scendono a 650 (870 calcolando le istanze pendenti).

LA RISPOSTA DI COSTA
Un altro affondo di Salvini era arrivato nei giorni scorsi dalle colonne del quotidiano La Stampa. “Da qui al 2030 il settore vale 13 miliardi di euro e interessa 100mila lavoratori e 57 imprese” ha detto il ministro dell’Interno, secondo cui “è tutto bloccato dal ministro Costa”. Che, però, sentito da ilfattoquotidiano.it risponde: “Bisogna chiederci dove vogliamo portare il Paese e il contratto di governo che parla di defossilizzare l’Italia lo aveva sottoscritto anche Salvini. Forse lo ha dimenticato o è un’altra cosa che intende rimangiare”. Costa ricorda, poi, di aver emanato un decreto ministeriale “affinché chiunque voglia un’autorizzazione ambientale a trivellare, debba indicarci ad esempio dove intendano smaltire i rifiuti e quanti si stima di produrne, entro quanto smantelleranno le piattaforme una volta esaurite e come e con quali garanzie ripristinare lo stato dei luoghi”. E commenta: “Mi sembra una richiesta più che ragionevole a multinazionali che attingono risorse dai nostri territori. Ricordo che la gran parte del prodotto estratto va all’estero, circa il 90%. Pretendere la tutela dell’ambiente mi sembra il minimo e dovrebbe stare a cuore anche al ministro dell’Interno”. Che, però, ha continuato a ribattere a suon di numeri sui posti di lavoro a rischio.

IL MISE: “IN ITALIA L’ESPLORAZIONE È FERMA”
“Se il tema è i posti di lavoro che si perdono – continua Costa – sono ricollocabili senz’altro nelle rinnovabili. Basterebbe leggersi il Pniec per capire che il dato dell’occupazione aumenta a mano a mano che aumenta la produzione delle rinnovabili”. D’altronde, anche dal Mise sottolineano che “la transizione energetica sta modificando le politiche dei governi”, ma anche quelle di grandi imprese operanti storicamente nell’upstream. Sono 179 le concessioni di coltivazione oggi vigenti: delle 113 in terraferma, 63 (ossia il 55%) sono improduttive e delle 66 in mare, 19 sono improduttive (il 29%). “L’improduttività – spiegano a ilfattoquotidiano.it i tecnici del Mise – è riferita a scelte volontarie del concessionario o perché l’attività produttiva si è conclusa ed è in corso la fase di ripristino ambientale”. Nel 54% dei casi la condizione di non produttività dura da più di 5 anni e ci sono anche 20 concessioni che non hanno mai prodotto (a terra e a mare), come ad esempio i titoli che riguardano l’Alto Adriatico. “Guardando lo storico dei pozzi perforati negli ultimi 20 anni – riporta, ancora, il Ministero dello Sviluppo economico – le cifre testimoniano che l’attività di esplorazione in Italia è sostanzialmente ferma. Parallelamente alla riduzione del numero di pozzi perforati, anche la numerosità degli impianti di perforazione attivi, indice dell’attività di esplorazione e, più in generale, del volume di investimenti, riflette la stessa tendenza”.

LO SCONTRO SUI POSTI DI LAVORO
La questione dei posti di lavoro è certo complessa, tant’è che già nel 2016, all’epoca del Referendum No Triv, spaccò anche i sindacati, con la Cgil della Basilicata, per esempio, secondo cui lo sfruttamento della Val D’Agri non aveva portato benefici e la Cgil nazionale che sosteneva il ‘no’ per tutelare i posti di lavoro. “Eppure i prezzi del petrolio in risalita e il mancato raggiungimento del quorum per il referendum anti-trivelle non fermarono la crisi”, spiega a ilfattoquotidiano.it Enrico Gagliano, portavoce del movimento No-Triv. Dopo pochi mesi da Ravenna i dati pochi incoraggianti: 600 posti di lavoro persi in un anno. Il 2016 è stato l’anno nero del petrolio in Italia, con una produzione nazionale calata del 31,3%. Nei giorni scorsi, Salvini era proprio a Ravenna. Oggi quei posti di lavoro rappresentano anche voti, visto che in Emilia Romagna si svolgeranno le elezioni regionali tra pochi mesi.

L’ALTRO FUTURO POSSIBILE
Ma Salvini, lanciando l’allarme sull’occupazione, dimentica di citare quel milione di nuovi occupati che le rinnovabili potrebbero creare nei prossimi dieci anni. Se a febbraio scorso, infatti, accanto ai lavoratori del settore oil&gas di Ravenna in protesta contro l’emendamento inserito nel dl Semplificazione, si è schierata in modo anomalo anche Confindustria Romagna definendolo lo stop “un suicidio industriale”, è pur vero che è proprio Confindustria a parlare di “126 miliardi di investimenti e un milione di posti di lavoro” che le energie rinnovabili possono generare da qui al 2030. Lo fa nel Libro Bianco ‘Per uno sviluppo efficiente delle fonti rinnovabili al 2030’ realizzato con la collaborazione di Ernst&Young e RSE (Ricerca sul sistema energetico, società controllata dal Gestore Servizi Energetici) e pubblicato a dicembre 2018.

IL LIBRO BIANCO
Secondo quanto stimato nel Libro Bianco, gli investimenti cumulati al 2030 per raggiungere i nuovi obiettivi sulle fonti rinnovabili sono stimabili fino a circa 68 miliardi di euro nel settore elettrico e in 58 miliardi nel settore termico, senza contare la grande domanda di investimenti legata alla mobilità sostenibile. Un volano di crescita in termini di investimenti che “se venisse interamente soddisfatto dal sistema manifatturiero italiano – è la previsione – porterebbe in tredici anni benefici cumulati per il sistema paese stimabili in un incremento del valore della produzione industriale di 226 miliardi di euro, un aumento dell’occupazione di un milione di lavoratori e un incremento del valore aggiunto per le aziende di 73 miliardi (34 miliardi solo Fer elettriche)”. Tutto questo a patto che il Governo decida di investire in infrastrutture, efficienza energetica, smart grid e via dicendo.

I TEMPI DIVERSI DI CICLI ELETTORALI E TRANSAZIONE ENERGETICA
“Nei prossimi 10-15 anni gran parte delle 139 piattaforme (di cui 72 sono di Eni) presenti nei nostri mari dovrà essere smantellato”, spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Masi, co-portavoce del Coordinamento nazionale No Triv. Cosa accadrà? C’è un progetto industriale alternativo alle trivelle che assicuri il futuro delle imprese e dei lavoratori del settore? “I cicli elettorali sono molto brevi rispetto al tempo che ci occorre per gestire la transizione energetica”, dice Enrico Gagliano, che ricorda come l’Irena (International Renewable Energy) e l’Ukerc (Uk Energy Research Center, noto centro studi sulle energie rinnovabili britannico) abbiano certificato da diverso tempo che “la transizione verso le rinnovabili crea più posti di lavoro di quanti ne distrugga”.

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